Il dècoupage classico non è l’unica forma di montaggio esistente, infatti, a questa forma dominante si affiancano almeno altre tre tipologie di montaggio: il montaggio connotativo, il montaggio formale e quello discontinuo. Il dècoupage classico in realtà nemmeno può vantare un primato estetico/espressivo anche perché non esiste una forma di montaggio migliore di altre, ognuna serve a qualcosa, ognuna ha delle potenzialità.
Ciò che però dovrebbe essere chiaro a tutti è che per poter utilizzare al meglio (e comprendere) le forme di montaggio non-classiche bisognerebbe prima conoscere (davvero) le norme che stanno alla base del dècoupage classico, delle quali spesso si è parlato nel corso della rubrica, altrimenti se ne farebbe solo un uso non consapevole e tutt’altro che utile.
Ed è ovvio, poi, che le diverse forme di montaggio non sono del tutto contrastanti l’una con l’altra e che, nel corso di un film, si possono anche affiancare e sovrapporre l’un l’altra.
In questo articolo, nel particolare, si tenterà di approcciarsi con quello che formalmente viene definito montaggio connotativo, nel quale il tratto dominante è la costruzione del significato.
Il montaggio connotativo, le basi teoriche
Nell’approcciarsi ad analizzare il montaggio connotativo, tendenzialmente si fa subito riferimento al ruolo di primo piano che ha giocato Ejzenštejn, il suo cinema e la sua riflessione teorica.
Ma, prima, in realtà, si dovrebbe necessariamente ricordare l’effetto Kulešov (dal nome del suo ideatore):
«prendemmo da alcuni vecchi film alcuni primi piani del celebre attore Mozzuchin e li scegliemmo statici e tali che non esprimessero alcun sentimento. Unimmo poi questi primi piani, che erano del tutto simili, con altri pezzi di pellicola in tre diverse combinazioni. Nel primo caso, il primo piano di Mozzuchin era immediatamente seguito dalla visione di un piatto di minestra sopra un tavolo; ed era cosa ovvia e sicura che l’attore guardava quella minestra. Nel secondo caso, la faccia di Mozzuchin era seguita da una bara nella quale giaceva una donna morta. Nel terso era seguita da una bambina che giocava con un buffo giocattolo raffigurante un orsacchiotto. Quando mostrammo i risultati a un pubblico non prevenuto e totalmente ignaro del nostro segreto, ottenemmo un risultato tremendo. Il pubblico delirava di entusiasmo per la bravura dell’artista. Era colpito dall’alta pensosità con cui guardava la minestra, era scosso e commossa dalla profonda afflizione con cui guardava la donna morta, era ammirato dal luminoso sorriso con cui guardava la bambina. Ma noi sapevamo in tutti e tre i casi che la faccia era la stessa»[1].
La certezza che le cose siano andate esattamente così come ci viene raccontata da Pudovkin non possiamo averla, anche perché di questo esperimento girano diverse versioni. Tuttavia, ciò che rimane ed è certo è che l’effetto Kulesov dimostra chiaramente che l’associazione di due o più immagini che da sole non hanno un significato particolare (o ne hanno di tutt’altro) producono un senso (il senso che è voluto dall’autore).
Il montaggio, a questo punto, si caratterizza per la sua funzione di produzione di significato, il quale non ci viene dato da una semplice riproduzione del reale (una riproduzione che forse al cinema non c’è mai stata, anche nei filmati Lumière si mette in scena qualcosa che non può essere definito reale. Come è stato già detto in altri articoli, il cinema si occupa sempre di quello che non c’è: di desideri, di fantasmi) ma attraverso la costruzione di un discorso articolato.
Il cinema, come tutte le altre arti, è creazione (di percetti, direbbe Deleuze).
Questa è la direzione che segue fin dagli inizi la produzione cinematografica e teorica di Ejzenštejn, anche di quando scrive ancora per il teatro. Alla base della teoria del montaggio ejzenstejniana c’è il conflitto, una collisione tra due inquadrature che ha come obiettivo finale quello di dar vita a una situazione significante.
«[…] il conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è in qualche modo un nucleo, una cellula di montaggio, che va soggetta alla legge della scissione con il crescere della tensione del conflitto. Il montaggio è un salto di qualità della composizione interna all’inquadratura»[2].
Il montaggio, questa tipologia di montaggio, ha un ruolo di fondamentale importanza e il tempo cinematografico viene dato dalla composizione ritmica delle inquadrature (ha un senso estensivo, quindi). Tutt’altra cosa rispetto a ciò che si sta sviluppando in Europa più o meno nello stesso periodo: un tempo intensivo e che è contenuto nell’inquadratura stessa, delle immagini-tempo (formalizzerà negli anni Ottanta sempre Deleuze).
Gli sviluppi del montaggio connotativo
È ovvio che, nel corso della storia del cinema, alcune delle ipotesi di Ejzenštejn (e in generale l’idea di un montaggio semantico, dalla funzione connotativa) siano state portate avanti da diversi cineasti.
Nel particolare, si potrebbe concludere la nostra trattazione con l’analisi di una delle più belle sequenze della storia del cinema (nella quale, di fatto, viene messa in scena la teoria dell’evoluzione di Bergson) e a cui spesso si fa riferimento quando si parla di montaggio connotativo:
Le prime due inquadrature sono costruite sul modello classico dell’avvicinamento progressivo attraverso il passaggio dal campo lunghissimo alla figura intera, che mette in rilievo il personaggio di maggiore importanza. Lo stacco che porta dalla prima alla seconda inquadratura è costruita con un raccordo sul movimento della scimmia che avanza verso sinistra. La posizione centrale che ora assume l’animale è funzionale allo sviluppo drammatico dell’episodio.
Ma per far comprendere allo spettatore che questa scena è qualcosa che ha un significato molto più profondo di ciò che appare, Kubrick sceglie di porre la macchina da presa addirittura sotto il livello della terra e di enfatizzare le azioni con l’inno al superuomo straussiano e lo slow-motion.
Ma sono soprattutto le immagini degli animali che stramazzano al suolo ad avere una funzione connotativa: sono direttamente imputabili alla scoperta del loro avversario. La possibilità, grazie all’osso/arma di prendere il sopravvento sulle altre razze animali e di piegarle alla propria volontà.
È dunque attraverso il montaggio che Kubrick determina il senso dell’episodio: associa la nascita della tecnica con l’origine della specie umana e, inoltre, con l’ellissi finale (l’astronave che ha una forma simile a quella dell’osso) ci catapulta verso il futuro imprevedibile.
Cira Pinto
Bibliografia:
· Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio.
· P. Bertetto, Introduzione alla storia del cinema.
· G. Rondolino – D. Tomasi, Manuale del film.
· G. Deleuze, L’immagine-movimento.
· V. Pudovkin, Tipi e non attori.
[1] V. PUDOVKIN, Tipi e non attori (1928), in La settima arte, Roma, 1974, pp. 126-127.
[2] S. M. EJZENŠTEJN, Teoria generale del montaggio, Venezia, 1985, p. 13.