Renato Cartesio e Giambattista Vico, due grandi esponenti della filosofia moderna, si sono entrambi interrogati sul miglior metodo da adottare per il conseguimento della conoscenza. Il primo ha intrapreso la ricerca sulla scorta della logica razionale, tesa a stabilire la verità delle cose, mentre l’altro si è appellato alla retorica classica, mettendo in risalto l’aspetto della verosimiglianza.
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Il metodo di Cartesio
Il punto di vista di Cartesio è espresso concisamente nel Discorso sul metodo, che riassume il percorso compiuto dal filosofo con l’intento di trovare un sistema in grado di pervenire ad una qualsivoglia forma di certezza.
Innanzitutto occorre lasciare da parte ciò che, non essendo dimostrabile, può essere smentito: è il caso delle illusioni provocate dai sogni. Con il proposito di giungere ad una verità intorno alla quale strutturare le successive, Cartesio si rende conto che, azzerando il valore di tutte le conoscenze fino ad allora acquisite, permane comunque un elemento che, in quanto presupposto imprescindibile alla base dello stesso ragionamento, non può essere isolato, poiché è l’atto stesso del pensare: il cogito. Al riguardo scrive:
“Nell’atto in cui volevo pensare che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa […] giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo.”[1]
Per Cartesio il dubbio che rende un essere pensante ne garantisce anche l’ esistenza. Ogni certezza può essere raggiunta solo attraverso la nostra razionalità. Da qui egli prende le mosse per enunciare la regola dell’evidenza, secondo la quale tutte le cose che percepiamo distintamente sono idee vere e perfette. Ciò porta il filosofo ad elaborare tre prove logiche dell’esistenza di Dio:
- le idee vere derivano necessariamente da una esistenza più perfetta della nostra che le ha immesse in noi;
- se il cogito non dipendesse da Dio avrebbe in sé tutte le perfezioni;
- Dio è perfetto dunque esiste.
Intelletto versus sensi
In particolare è l’ultima prova ontologica quella di cui egli si serve per incoraggiare l’uomo ad allontanarsi dalle immagini sensibili: come la perfezione del triangolo, che scaturisce dal fatto che la somma dei suoi angoli è uguale a due retti, non è percepita dai sensi ma esiste, allo stesso modo la perfezione di Dio ne implica l’esistenza, anche se i nostri sensi non sono in grado di afferrarla.
Da ciò il pensatore francese deduce che questi ultimi sono un ostacolo per il raggiungimento della verità, perché compromettono la capacità di distinguere il vero dal falso. Pertanto solo l’intelletto, guidato dall’evidenza della ragione, può persuaderci dall’inganno dei sensi. Cartesio, facendo del primum verum Dio e allo stesso tempo il cogito, non solo riconduce tutto il campo della conoscenza alla sola riflessione metafisica ma riduce l’intero processo di apprendimento alla logica razionale e deduttiva.
Giambattista Vico e il recupero della cultura umanista
Tra i maggiori critici del metodo razionale moderno e della corrente giansenista, che aveva radicalizzato l’aspetto dogmatico del pensiero cartesiano fino a confondere il metodo con la realtà, ritroviamo Giambattista Vico.
Il filosofo napoletano riconosce a Cartesio il merito di aver portato in auge le facoltà della mente umana e dato risonanza alla geometria, ma ritiene che egli non sia stato in grado di cogliere i limiti del suo metodo. La tesi di Vico non si pone agli antipodi di quella cartesiana ma intende completarla, affiancando alla razionalità altre qualità della mente, come la creatività e l’immaginazione.
Secondo Vico, infatti, il vero è ipsum factum, cioè la verità di qualcosa coincide con la sua produzione. La logica non permette all’uomo di cogliere la natura interamente, giacché egli non ne è l’artefice. L’uomo dovrebbe allora essere più propenso a comprendere gli esiti delle cose da lui stesso ideate.
Cartesio e i suoi seguaci trascurano invece gli studi umanisti e in particolare l’argomentazione che procede per immagini, non accorgendosi neppure dell’importanza rivestita dalla verosimiglianza, a cui l’uomo in quanto imperfetto è maggiormente predisposto. Il medico moderno considera la causa della malattia, perché è evidente, e non si cura dei sintomi, poiché incerti, precludendosi la possibilità di andare incontro a nuove scoperte.
Se Cartesio abbraccia la critica, l’arte dell’orazione vera, Vico sostiene che a precedere questa vi sia la topica, l’arte dell’orazione feconda[2]. La topica è infatti la capacità di addurre argomenti a proprio favore attingendo da luoghi comuni ed è la comune percezione a precedere di norma il giudizio sulle cose. A ciò si aggiunge il fatto che non tutti sono in grado di cogliere la verità attraverso i ragionamenti, quindi in alcuni casi è necessario fare ricorso al fascino dell’eloquenza. Vico riaccende così l’interesse per la cultura umanista.
La sapienza unitaria come punto di incontro
Se, per Cartesio, il metodo apodittico è quello ideale per attingere alla conoscenza, che deve essere inequivocabilmente certa, per Vico la passione e l’ingegno devono piuttosto condurre l’uomo alla sapienza, che include in sé anche il verosimile. La vera sapienza va intesa nell’ottica di una struttura unitaria e universale, in cui confluiscono tutte le scienze e le arti che l’individuo ha realizzato nel corso della storia e che pertanto può apprendere, incluse quelle variabili e soggette all’opera dei sensi.
L’inclinazione scientifica di Cartesio e quella umanista di Vico sono rientrate a tutti gli effetti nella storia della disputa tra la scienza moderna e l’antica sapienza. Allo stesso tempo, però, il fatto che Cartesio abbia improntato il suo metodo a partire da una percezione del soggetto, giacché l’evidenza del cogito non pone le basi per una scienza, e Vico abbia ravveduto nel ricorso alla cultura classica la possibilità per l’uomo di affrontare meglio le condizioni proposte dalle nuove scoperte scientifiche, possono quantomeno instillare il dubbio su di un pregiudizio, ancora oggi molto diffuso, che consiste nel considerare la razionalità e l’immaginazione in una dimensione gerarchica e di reciproca avversione.
Giuseppina Di Luna
Bibliografia
[1] René Descartes, Discorso sul metodo, Editori Laterza , Roma-Bari, 2014, pag. 45.
[2] Giambattista Vico, De nostri temporis studiorum ratione, Diogene Edizioni, Napoli 2014, pag. 38-39.