Crediamo di capire tutto. Sbagliamo in continuazione. Libri come La canzone dei migranti di Fabio Rocco Oliva ci fanno capire quanto siamo ignoranti e miseri in confronto alla vita. Siamo ancora una volta costretti ad aprire gli occhi per bene, tapparci il naso ed immergerci nella lettura per immedesimarci nella vita di un uomo che lotta per sopravvivere a costo di perdere la propria umanità. Un pezzo di pesce, un comune pesce che possiamo gustare in qualsiasi momento sulle nostre tavole è l’oggetto di una bestiale contesa nelle prime pagine del libro, quando siamo spettatori su quel barcone degli orrori. Ci sono solo preghiere, speranze, pensieri di bambini. Non ci siamo noi, o meglio, c’è la nostra assenza, in quel mortale amico di nome Mediterraneo, luogo di speranza che può facilmente trasformarsi in una bara chiusa da un cielo silenzioso, senza risparmiare nessuno, né donne né bambini innocenti. Le grida di aiuto non vengono ascoltate mentre i barconi vengono rovesciati, barconi contenenti uomini, storie, sogni. La canzone dei migranti è un libro di riflessione angosciosa, necessaria. Lampedusa diventa l’emblema di isola isolata, lasciata sola, abbandonata a raccogliere gli abbandonati, persone perse che devono decidere cosa fare della propria vita, dopo aver attraversato l’inferno.
Nella grande storia attuale, Oliva riesce ad inserire un microcosmo, con i due amanti, l’antagonista, gli aiutanti: una piccola tragedia shakespeariana dentro l’enorme tragedia umana, quasi biblica. Viviamo in un mondo che probabilmente sta per essere investito, se non è già stato investito, da una grande ondata di vento xenofobo, tendente al nazionalismo, alla ostinata difesa di un valore quasi inesistente, superficiale, a discapito di una umanità fragile: isoliamo persone costrette a vivere una vita di costrizioni, di contrasti, di lotta. La canzone di Oliva suona le corde della nostra anima sopita per risvegliarla, con uno stile tagliente, cinico. Ci sono frasi breve che riescono a pungere più di qualsiasi altro discorso lungo: la brevità di queste frasi è in diretta proporzione con l’intensità della fiamma del rancore, una brevità che nasconde delle grida di disgusto, di rabbia. E proprio questa intensità, incalzante come uno spettacolo teatrale, che fa de La canzone dei migranti un grande libro.
“Migliaia di storie taciute, inconoscibili, sepolte nel Mediterraneo o perdute in qualche strada desolata di una città italiana, accasciata su una panchina di Napoli, o nella stazione di Milano, in una banlieue qualunque alle porte di Parigi, appoggiata al marmo della porta di Brandeburgo, o sulla riva del Tamigi. Storie che non verranno mai raccontate, che moriranno nella lotta alla sopravvivenza”
La storia di Rosarno, che aveva persino interessato Wim Wenders, divide il libro in due, in una delle storie più traumatiche e meno ricordate della nostra Italia: sullo sfondo il colore degli aranceti della terra calabrese, il folklore, l’amore del Sud, qualcosa che diventa una mera facciata, una scenografia colorata per un tetro spettacolo: L’inferno, scrive Oliva, ha le sembianze di un capannone abbandonato. La descrizione dei migranti è la descrizione che Dante fa dei dannati all’inferno, terribile. Naufraghi, numeri, migranti, schiavi, ma mai umani. I protagonisti del libro vengono trattate come bestie, non dal mare né dalla terra, ma da altre persone senza scrupoli. Non è la malignità della natura, è l’assenza di umanità che preoccupa, umanità che risiede nel lato buono di Rosarno, quella luminosa Mamma Africa, vera e propria oasi del deserto. Ma il trattamento porta ad una reazione istintiva, sempre incline ad una natura che non ha nulla di umano: in alcuni tratti, con un sottile gioco di parole, si potrebbe trovare un richiamo al richiamo, quello della foresta, quello di Jack London. La canzone dei migranti è uno schiaffo all’ignoranza che va oltre il perbenismo spicciolo, perchè un’incisione della realtà che si specchia anche nelle anime dei personaggi, fittizi ma assolutamente simili ai protagonisti di un mondo così vicino a noi, eppure così terribilmente lontano.
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Diego Sbriglia