Sull’umanità di Kafka, lungamente malconsiderata da certa critica, Reiner Stach muove la propria indagine che non manca di sottolineare ironia e frivolezza.
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Il corpo della scrittura
Nel posare sulla carta il pennino d’una stilografica; nell’incessante battere a macchina il cui ticchettio investe la camera di un unico suono; nel tradurre un’idea in letteratura l’individuo perde sé stesso nella propria opera sino a diventarne parte, la mano che compone valica la mente che immagina. Vi è l’uomo, certo, sottratto al tempo dal continuo divenire, vi è la sua parola, e vi è infine una traccia immaginifica che sopravvive persino alla narrazione. Essa si conforma allo scritto, diviene scrittura sino a inglobare la mano con il corpo intero e lasciare che essi si dissolvano dietro il proprio universo fatto di letteratura. Ai posteri l’eredità, che un ottimista chiamerebbe “immortale”, di una trasfigurazione letteraria, un’immagine olografica che se da un lato sopravvive a chi scrive, dall’altro lo tradisce. Egli non è più uomo, è semplicemente la materia della sua narrazione.
Mai un tradimento fu così lungamente ben accolto come quello che vede per vittima Franz Kafka.
K.
Kafka è il “grottesco”, la “macchina burocratica”, il grigio assicuratore la cui identità è senza sosta erosa dal demone della scrittura, la timida blatta che abita il corpo dell’uomo; Kafka è le sue stesse opere, poco meno che la lettera K prima del punto. Chi non sarebbe pronto a rievocare, come osservato con i propri occhi, quell’episodio in cui il giovane Franz è condannato e messo a morte senza alcuna colpa? E chi potrebbe negare che l’impiegatucolo non abbia un bel giorno preso a lavorare come fuochista? La vita, dinanzi alla forza dell’opera, non può che tacere e immiserirsi.
Di tale rilevanza l’indagine che Reiner Stach, stimato critico letterario, muove sulla figura umana che si nasconde dietro l’aggettivo “kafkiano”.
Si rischia davvero di strappare agli autori la fiamma d’interesse che ne alimenta la stima nel tracciarne nitidamente il profilo velato dalla loro opera? Il paradosso si manifesta, tuttavia, nell’accorgersi che il velo invece di celare, denuncia.
Il velo dell’opera
L’opera espone, certo in una natura inconscia, l’individuo intimamente nudo. La pratica di presentarlo, allora, vestito delle sue spoglie mortali non è utile al fine di riscoprire l’eccezionalità dietro lo scritto, ma a quello di eliminare la retorica dal discorso sulla biografia. Invece che spogliarlo, lo si veste di molteplicità, delle contraddizioni ordinarie di un’esistenza. Un ritratto che appena abbozzava i lineamenti di uno scrittore sull’interpretazione psicoanalitica della sua opera, diviene ora nitidamente scolpito dalla descrizione di una indecifrabilità umana. L’uomo vive di infiltrazioni dell’immediato nella coscienza, di suggestioni, di sentimenti impetuosi e meschini; egli è instabile dove la letteratura lo presenta come solido. Stach sembra scrivere di Kafka perché egli sia ancor più kafkiano.
Due i movimenti che il biografo compie al fine di far luce sopra l’umanità di Kafka. Il primo: conferire medesima dignità letteraria a ogni documento, sia esso il brandello di una lettera, un appunto fugace, una riflessioni in forma di diario. Ogni lettera segno per una resa letteraria della nudità intellettiva. Ciò che distingue, ad esempio, una meditazione diaristica da un racconto è la buona fede con cui si crede di operare sulla prima, mentre lo scambio epistolare appare come il luogo per cui la nudità della parola subisce una trasfigurazione al fine di servire il dialogo tra mittente e destinatario.
Il reperto Kafka
Nell’indagine di Stach ogni elemento, che non a caso prende il nome di “reperto”, è de-contestualizzato e ridimensionato al medesimo interesse. Così, ed è solo uno degli esempi che si potrebbero muovere in merito, a proposito dello scetticismo di Kafka nei confronti dei medici, il ricercatore prende a esame due pagine di diario, numerose lettere e persino una cartolina.
Singolare come materiale già edito divenga l’oggetto di uno studio tematico forse più divertito che rigoroso, certo non privo di pregio. Il secondo movimento prevede, infatti, che la natura tematica dell’indagine esaudisca con chiarezza l’interrogativo “cosa fa di un uomo, un uomo?’. Kafka s’infuria, ironicamente si beffa di sé stesso, riflette su ciò che gli aggrada e ciò che lo disgusta. Si può, dunque, abbozzare una replica alla spinosa questione dell’umanità e se essa non sia che un demerito per gli autori? In un discorso letterario dove essi non sono presentati che come enti spogliati dell’anima, cianfrusaglie abbandonate da descrivere nella loro oggettualità, un’opera che proponga la vita e la sua indecifrabile frivolezza non può che essere accolta con tutti gli onori possibili.
Antonio Iannone
R. STACH, Questo è Kafka?, Adelphi, Milano 2016, trad. it. S. Dimarco – R. Cazzola.
Tutte le opere di F. KAFKA consultate (Romanzi, Racconti, Lettere, Confessioni e Diari) sono reperibili in edizione Mondadori, Milano, collana “I Meridiani”.