Rosario Lisma e i suoi “Peperoni difficili”
Uno dei più grandi miracoli del teatro è, o meglio dovrebbe essere, quello di suggerire contenuti senza imboccare pappette già masticate e punti di vista stantii e incardinati al pubblico. Se poi lo si riesce a fare aggiungendoci anche un pizzico di sale e di pepe che livella la pesantezza di argomentazioni non proprio leggere e sdrammatizza le due ore di spettacolo di modo che lo spettatore non inizi a sbadigliare, allora siamo di fronte ad un buon prodotto teatrale. Parliamo dello spettacolo scritto, diretto ed interpretato da Rosario Lisma, Peperoni difficili, in scena dal 10 fino al 15 gennaio 2017 al piccolo Bellini. Lo stesso titolo Peperoni difficili parte da un simpatico riferimento interno al testo che viene rivelato e compreso solo a spettacolo inoltrato. Maria (Anna Della Rosa), sorella di Giovanni (Rosario Lisma), parroco di un piccolo paese di provincia, ha vissuto in Africa per molto tempo. È partita da missionaria, e ha imparato dalle donne africane una lunghissima e contorta ricetta culinaria che tradotta in italiano significherebbe appunto “peperoni difficili”. Difficili perché il processo di preparazione è talmente complesso che le donne locali una volta specializzatesi in tale ricetta acquistano addirittura una certa autorità all’interno della loro piccola comunità. Questo dettaglio, che potrebbe sembrare irrilevante ai fini della realizzazione scenica, è in realtà uno dei primi, velati, spunti di riflessione che ci viene offerto: il pubblico è libero di riflettere, ha l’opportunità di aprire la mente e farsi un paio di domande su quanto sia vasto questo mondo, su quante siano le diverse, variegate, curiose, originali e meravigliose culture di altri popoli che lo abitano, con la loro storia e soprattutto con i loro problemi. “Difficili”. Difficili come la verità, intesa come accettazione della suddetta o come coraggio di dichiararla. La verità, che dovrebbe essere innalzata al più grande e più ricercato dei valori dell’essere umano, ma che non sempre viene chiesta, accettata, anelata. E allora qual è il limite non valicabile fra una verità scomoda ma indispensabile ed un’indelicatezza non richiesta e fuori luogo? Che per di più rischia di tramutarsi in cattiveria gratuita laddove ognuno si costruisce il proprio castello di sabbia e non sempre è pronto ad uscirne; e a nessuno dovrebbe spettare il diritto di soffiarlo via. Apoteosi di questi contrasti ideologici e sensibili sta nella condizione di “malato” di Pietro (Ugo Giacomazzi), banchiere brillante, simpatico, intelligente, acuto ed ironico, ma spastico; all’apparenza inconsapevole del suo handicap, ma di un’inconsapevolezza leggibile anche come forzatura laddove a volte, non guardare le cose per paura di doverle chiamare con il proprio nome potrebbe anche essere una scelta deliberata e personale, che non spetta prendere o abbattere a nessun altro se non al diretto interessato.
Si tratta a questo punto di stabilire il limite fra il perbenismo e la sincerità, si tratta di stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato, o si tratta invece, solo di osservare e riflettere, perché ci sono delle posizioni “difficili”, che non possono essere assolute.
E poi ci sono le gelosie, le paure, i sensi di colpa, i complessi di inferiorità, le meschinità che appartengono in un modo o nell’altro all’uomo per sua stessa natura.
E poi c’è il dolore dell’abbandono, l’impotenza e l’incapacità di reagire, in poche parole, la piccolezza dell’essere umano, che si incarna nel personaggio di Filippo (Andrea Narsi), che voleva fare il calciatore ma vive la sua condizione di modesto bidello, accontentandosi di guardare le partite alla tv, di allenare la squadra della parrocchia, e di vivere nel ricordo dei sogni giovanili infranti e nel tormento di una donna che lo ha abbandonato.
C’è l’arguta disquisizione al riguardo della religione, affrontata da due posizioni opposte, ma che restano amiche, e già questo dettaglio è un arguto riferimento ai racconti della guerra cui ha assistito Maria. Altra componente non trascurabile sta nelle posizioni altalenanti di alcuni personaggi durante il dibattito; dimostrazione chiara come il sole che nessuna posizione deve necessariamente tramutarsi in assioma indiscutibile, genitore dell’ottusità.
Tutti ingredienti per una ricetta “difficile” quanto quella dei peperoni.
Ma la ricetta, in scena, viene bene. Condita da quell’incantesimo che si scatena solo sul palcoscenico, capace di ricreare la condizione onirica di un incubo che inquieta finanche il pubblico o quella di disambiguazione fra il personaggio e il suo alter ego, poggiandosi solo su qualche punto luce ( a cura di Paola Tintinelli e Luigi Biondi) e sulle giuste musiche (di Gipo Currado).
Letizia Laezza
Teatro Bellini- Peperoni difficili- sito ufficiale