Uomini contro è un film di Francesco Rosi (Napoli, 15 novembre 1922 – Roma, 10 gennaio 2015), uno degli dei dell’Olimpo del cinema italiano. Nessun regista ha assimilato come lui la storia del cinema precedente. Il suo stile deriva da un processo d’integrazione della lezione di Visconti con i generi americani e popolari.
La cifra caratteristica del cinema di Rosi è la profondità d’analisi, l’inchiesta. Già dal suo primo film, La sfida, è evidente una volontà di sollevare il velo dell’apparenza per scoprire la verità storica. Lo stesso succede in tutti i film successivi: Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Lucky Luciano, Il caso Mattei. Con occhio indagatore, il regista ci mostra, già dalla fine degli anni Cinquanta, la rete di rapporti tra Potere e Mafie, tra economia e politica, tra verità e manipolazione dell’informazione. I suoi film rimangono, quindi, ancor’oggi, oltre che attualissimi, fonti storiche di prim’ordine.
Uomini contro: un documento storico concreto
Ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, Uomini contro è liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’altopiano. Riprendendo il diario dello scrittore sardo, già di per sé eversivo rispetto alla storia ufficiale ed esaltativa, Rosi ci mostra uno spaccato delle condizioni dei soldati italiani sul Fronte Meridionale.
Sull’altopiano di Asiago non ci sono Austriaci cattivi o eroici soldati italiani che resistono sul Piave. Quelli che vediamo, già dalla prima inquadratura, sono gruppi di uomini claudicanti che camminano nel fango, tra la nebbia e i fumi dell’artiglieria. L’atmosfera cupa e la rappresentazione concreta della guerra di trincea ne mettono in risalto l’orrore e l’insensatezza.
In quest’ambiente spettrale decide di prestare volontariamente servizio il sottotenente Sassu, un giovane studente interventista. Questi si ritrova, così, nella divisione comandata dal generale Leone e alla dipendenza diretta del tenente Ottolenghi, interpretato da Gian Maria Volonté.
Tutta la storia, rappresenta la Bildung di questo personaggio, dall’interventismo, alla disillusione e al pacifismo. Attraverso la sua esperienza, Rosi ci mette di fronte ad uno scenario disumano, fatto di sacrifici inutili e di ufficiali spietati.
I soldati al fronte erano trattati come carne da macello, erano, per la maggior parte dei contadini […]. Subivano la guerra come una calamità naturale. (Francesco Rosi, da P. IACCIO, Il Mezzogiorno tra cinema e storia, Napoli, 2002. Liguori editore).
La guerra mostrata da Rosi e raccontata da Lussu non si svolge tra Stati, ma diventa una guerra di classe. I soldati, infatti, non volevano combattere, ma vi erano costretti dagli alti ufficiali. Quest’ultimi compivano evidenti errori di strategia militare, oltre a veri e propri soprusi nei confronti dei loro sottoposti.
Tutto il film ruota intorno alla conquista di una collina, il Monte Fior, in mano agli austriaci. Essendo sprovvisti di artiglieria, la strategia adottata è sempre la stessa: lanciare i fanti in continui e ripetuti attacchi frontali contro l’artiglieria nemica. I risultati sono, ovviamente, scontati: una vera e propria carneficina.
L’impreparazione degli alti comandi nel gestire la guerra è evidente soprattutto nell’episodio grottesco delle corazze Pasina. Queste avrebbero dovuto proteggere i militari dalle pallottole austriache. Una nuova beffa. La protezione è non solo inefficace, ma rallenta enormemente i movimenti. Pone, inoltre, i soldati alla mercé dei nemici.
Queste condizioni disumane, il cambio di turno che non arriva e la speculazione sui generi di prima necessità al fronte, portano gli uomini esasperati a disertare. Le punizioni sono gravissime, prima tra tutte la decimazione, un episodio che lo stesso Rosi aveva ascoltato dai racconti di suo padre (Idem).
Sotto questa luce, la Grande Guerra di Rosi diventa così una guerra tra poveri, come afferma lo stesso tenente Ottolenghi.
Basta! Basta con questa guerra di morti di fame, contro morti di fame! (Tenente Ottolenghi)
Il nemico vero è alle spalle, è l’alto comando che li manda a morire in una guerra senza senso, per fuggire dalla quale ogni metodo è utile, anche l’automutilazione.
Il film di Rosi, quindi, così come quello di Kubrick sul fronte occidentale (Paths Of Glory), non portano avanti un discorso meramente storico. La Grande Guerra diventa emblema dell’insensatezza di ogni conflitto, della spietatezza insita nelle gerarchie militari, della lotta di classe condotta tramite le carneficine dei contadini/soldato.
Proprio per questo, il film fu fortemente osteggiato. Oltre a mostrare i nervi scoperti della storia, metteva in cattiva luce tutta l’organizzazione militare. È questo uno dei motivi fondamentali che valse a Rosi la denuncia per vilipendio dell’esercito.
Giuseppe Mele