Bürger, poeta tedesco dello Sturm und Drang, ed Edgar Allan Poe dedicano entrambi una poesia al nome di Lenore. Due poesie inquietanti, evocative e gotiche.
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Lenore, il potere di un nome
What is in a name? Cosa c’è in un nome? La Giulietta di Shakespeare sarebbe pronta a giurare che una rosa conserverebbe il suo profumo e il suo amore continuerebbe ad essere lo stesso se pure gli venisse strappato l’identificativo per eccellenza, ciò che fin dalla più tenera età riconosciamo come nostro: un nome. Ma i nomi, più di ogni altra parola, possiedono un valore speciale: una potenza evocativa capace di andare oltre l’oggetto che identificano. Quando nient’altro resta, possiamo accontentarci ancora di accarezzare, nella mente, un nome.
Alcuni nomi hanno un potere evocativo prorompente. Così il nome di Dante, per noi italiani, rimanda immediatamente agli studi liceali, ai versi forse imparati a memoria, forse amati, al turbine dei dannati nel quinto canto dell’Inferno e a una miriade di altre sensazioni speciali e individualissime. Il filo conduttore di questo articolo, sottilissimo eppure tenace, sarà proprio un nome: Lenore.
L’evocazione di un orrore che, tra Settecento e Ottocento, tra Germania e Stati Uniti d’America, ha unito due poeti dotati di una fantasia fervida e affine: Gottfried August Bürger ed Edgar Allan Poe. Il primo, poeta tedesco esponente dello Sturm und Drang, ha messo in versi un vero e proprio romanzo dell’orrore; il secondo, scrittore versatile e maestro del brivido, ha evocato Lenore nella sua poesia più nota, il corvo.
“Lenore”, la ballata di Bürger
La guerra dei sette anni si è conclusa; i soldati, congedati, tornano a casa dalle loro belle. Solo Lenore rimane delusa: il tempo scorre e il suo amato non ricompare. Dovrà rassegnarsi, pensare che abbia trovato un’altra donna oppure che sia coraggiosamente morto per difendere la patria. Ma Lenore non ascolta i consigli della sua cristianissima madre (Perdona il peccato! […] Quel che Dio fa, è sempre ben fatto), il dolore della perdita è troppo grande: sacrilegamente, rinnega Dio e rifiuta il Paradiso. In Dio non c’è pietà. Per me, mai più felicità!
Ma poi una notte, al culmine della disperazione, ecco che Lenore ode una voce:
Su, su, bambina! Aprimi, apri, presto!Che fai, amore mio? Dormi o sei desta?Di’, mi ami sempre, o mi hai dimenticato?Piangi o ridi? Sei come ti ho lasciata?
“I morti cavalcano veloci”
Il suo farsetto, sbriciolato e infranto,come fradicia miccia a pezzi cade.Teschio, senza codino o ciuffo o cresta,nudo teschio diviene la sua testa,e scheletro il suo corpo maledetto,scheletro con clessidra e con falcetto.
La ballata, poesia “popolare”
La peculiarità della forma poetica “ballata” è quella di mettere al centro dell’attenzione la narrazione. Si tratta insomma di un racconto in versi (in Italia sarà Giovanni Berchet a definire quest’opera di Bürger “romanzo”): niente di strano se, nel periodo dello Sturm und Drang, quando Herder raccoglieva i racconti popolari di diverse tradizioni europee e Hamann sosteneva che “la poesia è la lingua madre del genere umano”, la potenza narrativa della lirica fosse tenuta in così grande considerazione.
Gli stürmer ritenevano che la poesia popolare fosse in qualche modo più vicina allo spirito di un popolo. Lenore è quindi un tentativo di coniugare la primordialità delle narrazioni popolari con l’ingegno e l’ispirazione della poesia più elevata.
Il corvo di Poe
Ancora una poesia narrativa
Nella stanza cupa di un uomo immerso nello studio dei suoi libri, nei quali cerca conforto per la perdita della sua amata Lenore, una notte di Dicembre giunge un visitatore inaspettato: ghastly, grim and ancient Raven wandering from the Nightly shore. Come la ballata di Bürger si apre con un personaggio in atteggiamento di lutto, anche il corvo prospetta una situazione del genere, ma rovesciata: è lui a soffrire per la morte di lei.
Il corvo trova subito posto sul busto neoclassico e solenne di Atena, creando così un contrasto piuttosto buffo: una creatura della notte, col suo atteggiamento di sdegno e la sua voce gracchiante, sembra del tutto fuori luogo in confronto all’armonia e alla serenità trasmesse dalla statua greca.
Poe vive in questa contraddizione: rappresenta l’orrore più grande imbrigliandolo nella forma più cristallina. L’irrazionalità, il caos, la morte e la follia sono catturati dalle parole perfettamente disposte nei versi, tanto che, nel saggio The philosophy of composition, il poeta ammette di aver progettato il Corvo in modo architettonico, quasi ornamentale.
Persino il celeberrimo refrain “Quoth the Raven, Nevermore” sarebbe solo il frutto di una riflessione fonetica sulla lunghezza della “vocale più sonora” (la o) unita alla consonante più prolungabile (la r).
Lenore in Poe: qualche riflessione
Raccontare e abbozzare una spiegazione della poesia di Poe in questa sede sarebbe riduttivo e quasi fuori luogo; ci limiteremo, perciò, a fornire qualche spunto di riflessione sul legame tra le due narrazioni in versi e sullo stile di questi due autori non contemporanei e lontanissimi nello spazio geografico.
Ambedue le poesie contengono un refrain incalzante, che spinge sempre più verso l’angoscia e la disperazione. Entrambe hanno per tema il dolore di una perdita, il peso di un’assenza: l’amore c’è stato, ma la morte lo ha portato via. In entrambi i casi irrompe sulla scena una creatura innaturale che è, in vario modo, portatrice di altro dolore: il cavaliere-scheletro condurrà Lenore alla dannazione eterna, il corvo si limiterà a dannare la mente del protagonista innominato, privandolo di qualsiasi consolazione ultraterrena: is there – is there balm in Gilead? – tell me – tell me, I implore! Quoth the Raven: Nevermore.
Il corvo è stato da molti interpretato come la materializzazione del senso di colpa del protagonista: secondo alcuni, egli potrebbe essere in prima persona responsabile della morte dell’amata. Chi scrive trova più proficuo attenersi agli indizi già forniti nella poesia e limitarsi ad un’osservazione più circoscritta: il corvo non si leverà mai più dal busto di Atena (Shall be lifted – Nevermore). La morte ha definitivamente trionfato, come in Lenore, anche nel Corvo. L’unica cosa che resta, che si può tenere stretta anche se solo nella mente, è un nome. Nomina nuda tenemus.
Maria Fiorella Suozzo
Note
il nome di Lenore fu utilizzato da Poe anche nell’elegia omonima: http://www.online-literature.com/poe/574/ che tratta il medesimo tema della morte dell’amata.
Fonti
Lenore, Gottfried August Bürger, introduzione e traduzione di Quirino Principe, edizioni dell’Altana
The Raven, Edgar Allan Poe
The Philosophy of Composition, Edgar Allan Poe