Il Figlio Di Saul è l’opera prima dell’ungherese László Nemes, regista cresciuto come assistente di Bèla Tarr. Il film è valso all’autore il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2015 e l’Oscar come miglior film straniero nel 2016.
Il Figlio di Saul: lo sguardo sfocato sull’orrore
Bastano pochi secondi su un paesaggio poco nitido, un fischio, un personaggio che si dirige verso la telecamera e lo spettatore si ritrova nel campo di concentramento di Auschwitz (anche se non è mai precisato apertamente). Il personaggio su citato è Saul, protagonista del film, facente parte del corpo dei Sonderkommando.
Con questo nome si identificarono particolari gruppi di deportati, costretti a collaborare coi nazisti nella loro opera di sterminio, per sopravvivere qualche giorno in più rispetto agli altri.
Questo gruppo di “privilegiati” assistevano le SS nelle mansioni peggiori: accompagnare i prigionieri nelle docce a gas, ripulirle dal sangue, cremare i corpi e spargerne le ceneri.
Ciò che colpisce, però, è lo stile di rappresentazione che Nemes adopera per “mostrare” gli orrori della Shoah. Per tutta la durata del film la telecamera è fissa sul protagonista (anche se con rari spostamenti). Tutto ciò che gli succede intorno ha contorni sfocati, non ben definiti.
La riluttanza a comunicarci visivamente di cosa è capace l’essere umano, ma, allo stesso tempo, un sonoro che non lascia nulla all’immaginazione e, infine, una forte volontà di riflessione, ci donano, in tal modo, un’espressività peculiare.
La visione è ugualmente sfocata nel mostrarci le forme di resistenza che i Sonderkommando mettevano in atto nel campo. Sono proprio le modalità con cui si svolge la rivolta dei prigionieri e la partecipazione di alcune donne che procurarono gli esplosivi, verso la fine del film, che ci fanno ipotizzare che si stia parlando della rivolta dei deportati di Auschwitz del 7 ottobre 1944.
La dannazione della colpa
PRIGIONIERO: Hai tradito i vivi per dare la precedenza ai morti
SAUL: Siamo già morti
La modalità con cui i nazisti crearono le zone grigie nei campi di sterminio sono state abbondantemente dibattute da numerosi studiosi e confermano, anche nel film in questione, le dinamiche con cui agisce il Potere: Dīvĭdĕ et īmpĕrā.
Ne I sommersi e i salvati, Primo Levi analizza tali modalità:
Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. […] Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti (Primo Levi, I sommersi e i salvati)
Tale colpa, pesante come un macigno, rende Saul e i suoi colleghi dei dannati. Per questo, il protagonista tenta in tutti i modi di ritrovare un contatto con la propria umanità perduta.
L’espiazione ricercata da Saul, nel tentativo di dare degna sepoltura ad un ragazzino morto davanti ai suoi occhi, diventa motivo trainante di tutta la vicenda. I suoi movimenti nel campo, in soggettiva, ci guidano alla ricerca di un rabbino che possa celebrare i riti sacri per questo figlio innocente, vittima del mondo adulto.
Seppellire un bambino per aggrapparsi ad una seppur flebile speranza di umanità diventa la missione principale della storia.
Tuttavia, non c’è alcuna visione consolatoria ne Il Figlio di Saul. Ne La vita è bella di Benigni, Giosuè ci appare come un simbolo di speranza per il futuro. Lo stesso succede coi bambini che assistono alla morte di Don Pietro nel finale di Roma città aperta.
Nel caso del film di Nemes, invece, l’infanzia è già stata soppressa e, quando ciò non è successo, diventa strumento inconsapevole nelle mani del male.
È così che, per l’autore, l’ideale ritrovamento della dimensione umana, compassionevole e sacrale dell’esistenza, appare sempre più lontana e “sfocata” nei contorni.
Giuseppe Mele