La tragedia a Roma ebbe un periodo di grande fioritura tra il III e il II sec. a.C., con un picco durante l’epoca degli Scipioni, protettori della cultura ellenistica che si stava diffondendo nell’urbe. Dopo Ennio, tragediografo oltre che autore degli Annales, la letteratura tragica fu portata avanti da due scenici che, a buon diritto, sono ritenuti gli inventori della tragedia in terra latina: Pacuvio e Accio.
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Pacuvio, da Brindisi a Roma
Pacuvio era un po’ più vecchio di Accio, e non a caso proveniva da area greca, più precisamente da Brindisi. Fu dunque il primo tra i due a giungere a Roma e a portarvi l’arte greca della tragedia.
Ebbe contatti con il circolo degli Scipioni, che probabilmente lo protessero dalle ingiurie dei più conservatori, i quali vedevano nel teatro un elemento di corruzione dei costumi. Scrisse poco, ma il suo successo fu dovuto, probabilmente, alla sua parentela con Ennio, il padre della romanità e della letteratura.
Accio e la storia romana
Accio giunse a Roma all’epoca dei Gracchi, dunque era più giovane di Pacuvio. Nonostante ciò, come per i tragici greci, i due ebbero modo di conoscersi e confrontarsi più volte.
Accio è stato il più grande poeta tragico della romanità: scrisse ben quaranta tragedie, di cui alcune praetextae, destinate cioè a rappresentare eventi della storia romana. Un esempio è una tragedia che egli scrisse in onore della famiglia dei Bruti, responsabili della fine della monarchia a Roma e grandi comandanti lungo tutti i secoli.
Tra tradizione e innovazione
La tragedia arcaica, dunque, ebbe in sé da subito la tendenza ad evolversi verso forme più propriamente romane. Le trame, di cui sappiamo solo attraverso i frammenti, prendevano spunto dal mito greco, ma notevole era la rielaborazione attuata dai due tragici. Accio e Pacuvio si trovavano pur sempre a Roma, e dovevano adattare la letteratura greca al mos maiorum romano.
Altro aspetto importante è l’influenza che i due subirono dalla letteratura ellenistica. Nonostante la tragedia greca si collochi nel V sec. a.C., la letteratura alessandrina aveva rielaborato ampiamente il repertorio precedente. E così le tragedie romane sono zeppe di peripezie, naufragi e mancati riconoscimenti. Tale caratteristica, tuttavia, non fu abbandonata subito: anche Seneca introdurrà, tre secoli dopo, l’orrido e il pathos nei suoi drammi.
Il linguaggio oratorio
Le tragedie di Accio e Pacuvio erano caratterizzate da un linguaggio particolarmente barocco e ampolloso, aspetto che faceva storcere il naso a non pochi romani.
È probabile che anche in questo caso il mondo greco sia stato responsabile: proprio in quel periodo la retorica romana si stava evolvendo verso uno stile molto ricco, detto “asiano” perché nato a Pergamo. Sappiamo che Accio si recò proprio a Pergamo: è possibile, dunque, che egli sia stato influenzato da questo nuovo indirizzo oratorio. Ecco come gli agoni (botta e risposta) tra personaggi, già presenti nella tragedia greca, divennero dei veri e propri “processi giudiziari”.
Il successo e il declino
Il successo di Accio e Pacuvio fu evidente: tutta la nobilitas romana, cioè la nobiltà aperta alla cultura greca, iniziò a dilettarsi scrivendo tragedie. Nonostante l’avvenuto trasferimento della tragedia da Atene a Roma, il suo periodo d’oro terminò a Roma proprio con la morte di Accio. Alcune tragedie continuarono ad essere messe in scena ma, in linea con la corruzione dei costumi sempre più diffusa a Roma, gli aristocratici e il popolo iniziarono a preferire messe in scena più “popolari” come il pantomimo o la farsa.
Dovremo aspettare Seneca per vedere attuato, finalmente, un secondo rinnovamento del genere tragico latino verso i supremi livelli del mondo greco.
Alessia Amante