A partire dalla teoria dell’élan vital, lo slancio vitale che coincide con la coscienza autocreatrice dell’uomo, Bergson mette in luce tutti i fraintendimenti in cui ricade quest’ultimo laddove non riesce a concepire il movimento come una summa indivisibile di momenti né la realtà come una creazione sempre costante e inattesa. Il padre dello spiritualismo francese non manca di esprimersi inoltre sulla metafisica e sull’importanza di riscoprire l’intuizione.
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La coincidenza tra il tempo vissuto e la coscienza
A Henri Bergson, caduto nell’oblio per decenni, vanno riconosciuti diversi meriti e il primo fra tutti è quello di aver distinto per la prima volta in maniera netta il tempo della scienza (quantitativo) dal tempo della vita (qualitativo). Mentre il primo è esterno e sempre uguale a se stesso, il secondo si diversifica, giacché ogni istante non è mai uguale all’altro e si può avere una percezione dello stesso più lunga o più breve a seconda dello stato d’animo. È risaputo infatti che quando siamo felici il tempo sembra passare in un batter d’occhio, mentre quando siamo disperati sembra dilatarsi all’infinito. In definitiva, il tempo della vita coinciderebbe con il tempo vissuto, cioè con quella durata che Bergson identifica con la coscienza. Bergson asserisce:
Per un essere cosciente esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente se stesso.
Il filosofo immagina la coscienza come un gomitolo che si dispiega non a partire da cause esterne, ma perché si autodetermina da sé. Avere una percezione distorta di queste nozioni basilari significa non capire fino in fondo svariate cose: il ruolo che riveste il possibile, la logica sulla quale si basa il movimento, l’essenza della metafisica.
Possibilità, libertà, creazione
Il primo problema è riconducibile alla tendenza malsana di considerare il reale qualcosa di più rispetto al possibile. Per Bergson infatti è piuttosto l’inverso, dal momento che è l’esistenza a precedere la possibilità. Proprio al riguardo scrive:
Il possibile non è altro che il reale con, in più, un atto dello spirito che ne rigetta l’immagine nel passato una volta che questo si è prodotto. […] Il possibile è il miraggio del presente nel passato.
Infatti è solo nell’istante in cui il reale si verifica che siamo in grado di intravedere il suo riflesso nel passato, ovvero di constatare che il possibile viene prima dell’esistenza. Il passato infatti si rimodella costantemente in vista di quel che accade nel presente. Tale tesi può essere avvalorata dal fatto che una storia d’amore è definitivamente chiusa non quando vi è un preciso lasso di tempo che ci separa dal momento della sua fine, ma nel momento in cui il sentimento che ci univa a quella persona non è più per noi attuale.
A ciò si aggiunge il fatto che la possibilità deriva dalla capacità dell’uomo di essere continuamente fonte di libertà e creazione e pertanto quel che accade, quando la possibilità viene subordinata alla realtà, è che l’individuo non si riconosce più come homo faber. Secondo Bergson, infatti, l’uomo originariamente creava strumenti che gli permettevano di difendersi dalla spietata natura.
In seguito questo slancio creativo è stato surclassato o quantomeno dimenticato a causa della familiarizzazione dell’uomo con la tecnica, che avrebbe portato alla nascita dell’homo sapiens. L’uomo allora arriva a plasmare la materia, a farsi di essa una idea generale, senza preoccuparsi più di averne piena coscienza. La creazione diventa così fabbricazione.
Gli errori della metafisica secondo Bergson
L’homo sapiens non è più conscio della sua potenza creativa e sente l’esigenza di fissare attraverso la speculazione quei concetti che gli servono a colmare ciò che, non comprendendolo, recepisce come vuoto. Nell’incapacità di cogliere il movimento come un divenire continuo, e non come una successione di istanti, risiede l’esigenza dell’uomo di porre domande che agli occhi di Bergson non hanno ragione di esistere.
Tali questioni sono due e sono alla base dell’intera metafisica occidentale: la prima si interroga sull’esistenza dell’essere piuttosto che il nulla, la seconda si chiede come l’ordine abbia potuto avere la meglio sul disordine così come la forma sulla materia. In verità anche per rispondere a queste domande occorre appellarsi a quel movimento continuo e indiviso che attesta l’impossibilità di demarcare una distinzione netta tra disordine e ordine, così come tra vuoto e pieno.
Considerare la soppressione di una componente a favore di un’altra è secondo Bergson non solo deleterio ai fini della comprensione di questo movimento indefesso, ma anche del tutto contraddittorio. Infatti se vi è un’assenza di ordine, l’idea che si possa aggiungere a tale assenza un altro ordine è logicamente impossibile. Se questi sono i presupposti, verrebbe spontaneo chiedere a Bergson quale sia allora il percorso che la metafisica dovrebbe intraprendere, e con quale approccio.
Alla ricerca dell’intuizione perduta
L’idea di fondo di Bergson è che l’uomo, anche attraverso il pensiero filosofico, possa riscoprire questa incredibile potenza creatrice che genera novità. L’uomo può percepirla risalendo a quella intuizione istintuale che gli era propria all’origine.
Possiamo provare a cogliere la nostra durata, ma non mediante l’analisi che, fondandosi sui concetti, è del tutto approssimativa. L’analisi scientifica si avvicina alla realtà senza mai identificarsi con essa. È piuttosto l’intuizione, che si concretizza nel rivolgere lo sguardo verso di sé, a fare la differenza. Bergson infatti scrive:
Vi è almeno una realtà che tutti noi cogliamo dall’interno per intuizione, e non per semplice analisi: la nostra persona nel suo scorrere attraverso il tempo, il nostro io che dura. […] vi è un flusso continuo non comparabile a nulla di ciò che ho visto fluire.
Ogni stato, dunque, preannuncia il successivo e contiene quello che lo precede. La descrizione delineata da Bergson è suggestiva e potrebbe evocare nella nostra mente l’immagine delle informazioni genetiche che si prolungano nei filamenti di DNA. Si tratta di un susseguirsi di prolungamenti in cui è iscritta in continuum la storia della nostra vita, in cui nessun momento è mai identico a se stesso.
In verità nemmeno l’immagine può, secondo il filosofo, rendere giustizia all’intuizione, anche se si avvicina ad essa meglio del concetto. D’altra parte l’intuizione non è una facoltà misteriosa, ma richiede comunque uno sforzo da parte dello spirito soggettivo che per sentire se stesso deve fare un percorso di autoconoscenza, riappropriarsi della forza motrice che è insita in esso.
Solo così, a detta di Bergson, la nostra capacità di agire si intensificherà e risollevandoci da qualsiasi necessità naturale potremo prepararci a vivere bene.
Giuseppina Di Luna
Bibliografia
Henri Bergson, Pensiero e movimento, Bompiani editore, Milano 2000.