Arte: ben poco si può osservare dell’opera lontano dal suo carattere di “Qui e Ora”. Questa la terminologia presentata, già dall’edizione del 1936 nella traduzione francese di Pierre Klossowski (epurata dell’introduzione sulla ricerca marxista), del celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per mano di Walter Benjamin. Il “Qui e Ora” dell’osservatore che, rapito, esplora gli ambienti di un dipinto alla parete; del lettore che ritaglia uno spazio incontaminato di silenzio nel rumore del mondo; dello spettatore che al cinema, accomodato alla poltrona, si abbandona alla magnificenza dell’immagine e lascia a quella il timone dei propri avvenimenti interiori. Con chi conversa, l’opera d’arte? In “Che cos’è la letteratura?”, Sartre avverte la necessità di proporre un capitolo sul “per chi” si scrive.
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Il “Qui e Ora” dell’opera d’arte
La riproducibilità tecnica spalanca, per il saggio benjaminiano, la presenza di quel “per chi”: se la tecnica di riproduzione “stacca il riprodotto dall’ambito di una tradizione” altrimenti granitica, e la sostituisce con una “presenza massiva”, lascia che il gruppo (che per Sartre sarà “potenziale” nei suoi moti interiori) divenga un solo, unico, “per chi” dell’opera. L’essenza dell’arte si manifesta dunque nella sua capacità di essere riproducibile: l’oggetto artistico è massificato, serializzato, non perduto nella sua autenticità, frammentato piuttosto in essa. Le mie percezioni di fronte a una riproduzione dell’“Urlo” di Munch sono autentiche come se quell’opera fosse a sua volta il tratteggio della mano che dipinge, come se osservassi l’artista al lavoro e potessi denudarlo. Ogni opera d’arte fa un po’ più nudo l’autore.
L’arte del disvelamento tra individuo e moltitudine
L’opera d’arte è allora la materia dove pare prodursi una relazione positiva sia tra l’individuo e il mondo che tra l’individuo e la moltitudine. Nel saggio di Martin Heidegger “L’origine dell’opera d’arte”, incluso nei testi di “Sentieri interrotti”, essa pare dialogare nientemeno che con il disvelamento delle cose dalla loro utilizzabilità: quegli scarponi che Van Gogh dipinge non sono né intonsi come fossero stati appena acquistati, né logori o sporchi di fango a causa d’una faticosa giornata nei campi: semplicemente si manifestano nella loro essenza più autentica. Nell’opera d’arte si dispiegano gli spazi della meraviglia che tiene insieme individualità e comunità.
Così Jonas, quell’artista a lavoro che nell’omonimo racconto di Camus, nella raccolta postuma “L’Esilio e il Regno”, ricama di finzione e tesse un abito d’artistume per la propria figura. Nell’arte la sua stella brilla, eppure la luce, se a volte permette uno sguardo più autentico, altre può accecare e non consentirne alcuno: il candore sa farsi crudele. Recluso nel sottoscala della propria abitazione, Jonas, lontano dai discepoli, dai critici, dagli amici, si abbandona all’inedia dell’artista e per consunzione produce la sua ultima opera, una tela nella quale “non si sapeva se bisognasse leggere solitaire o solidaire”.
L’artista contro il tempo
L’artista che, attraverso lo strumento tratteggia, il profilo dell’abisso permette d’introdurre l’immagine di un “mistero della creazione artistica”. Di esso si occupa infatti Stefan Zweig, già affermato narratore, nel corso di una conferenza tenuta a New York nel 1939, l’anno in cui vedeva la luce la terza stesura del citato lavoro di Benjamin, definitiva soltanto a causa del suicidio dell’autore.
Che i libri vengano scritti dagli scrittori o dai poeti ci pare altrettanto naturale del fatto che gli stessi vengano impaginati dall’impaginatore, stampati dallo stampatore, rilegati dal rilegatore e venduti dal libraio. Si tratta di un semplice fenomeno di produzione – come il fatto che, ogni giorno, venga infornato il pane o vengano prodotte scarpe e calze. Il prodigio ha inizio quando uno di questi libri o di questi quadri, grazie al dono della perfezione, sopravvive al nostro tempo e a quelli futuri.
In una precisa edizione per Pagine D’Arte a cura di Giovanna Albonico, Zweig descrive le categorie di soprannaturale e genialità quali entità metafisiche che agiscono nel corpo e per mezzo di un essere umano “come tutti gli altri”. Cosa distingue allora l’uomo dall’artista? Egli, che infrange la legge della carne, vive di un’intuizione immateriale, il soffio che gli sommuove il braccio, le dita, la voce. L’artista crea una sostanza “che sfida la transitorietà”, il “Qui e Ora”, prima istanza di ogni opera. La materia è continuamente tremula, l’opera d’arte si fa, invece, immobile; nulla, neppure la morte pare annichilirla. In quello spazio dove alcuno sguardo può farsi interprete, l’opera d’arte si consuma nel mistero della sua creazione.
Un metodo per il delitto
Il metodo che Zweig propone è quello della criminologia: assolutamente fenomenologico, che del delitto ricostruisce moventi e prodromi. Non potrebbe, quella dell’artista, essere una confessione sincera, se pur decidesse di raccontare la genesi della propria opera: di lui si può dire che nella creazione non compia che un concorso esterno. Lo stato creativo dell’arte, dichiara ancora Zweig, “è uno stato puramente passivo”. Quel buffo mescolamento di ingredienti tenta allora con le proprie misere forze di portare nel mondo un’intuizione interiore lottando contro la corporeità dell’opera. Il mistero è svelato: l’assassino è metafisico.
Antonio Iannone
Bibliografia
W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), a c. di F. Desideri, Donzelli Editore.
A. CAMUS, Giona o L’artista a lavoro, in L’esilio e il regno, trad. it. S. Morando, Bompiani.
J.P. SARTRE, Che cos’è la letteratura?. Lo scrittore e i suoi lettori secondo il padre dell’esistenzialismo, trad. it. L. Arano-Cogliati – A. Del Bo, Il Saggiatore.
S. ZWEIG, Il mistero della creazione artistica, trad. it. G. Albonico, Pagine d’Arte.