Molto si sa del Riccardo III di Shakespeare: dalla celebre espressione “il mio regno per un cavallo!” alla pura malignità del protagonista, uno dei villain meglio dipinti di tutta la produzione del Bardo. Altrettanto bene si conosce Falstaff, il grasso e vanaglorioso cavaliere che appare nelle due parti dell’Enrico IV, nonché nella commedia Le allegre comari di Windsor. A proposito dei drammi storici, però, c’è un’opera forse meno nota, ma decisamente importante per comprendere il rapporto di Shakespeare con la figura del monarca e, più in generale, con il potere politico: si tratta di Riccardo II. Shakespeare ha scritto tanti drammi ispirati alla storia dell’Inghilterra, tutti aventi come protagonista un sovrano: è perciò utile analizzare le immagini e i simboli che, di volta in volta, vengono utilizzati per presentare il sovrano di turno e Riccardo II si presta bene a fungere da guida in questo percorso.
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Riccardo II contro Enrico Bolingbroke
Uno dei temi portanti dell’opera, quello che seguiremo nella nostra analisi, è lo scontro tra due figure potenti, ma radicalmente opposte: Riccardo II, il re in carica, ed Enrico Bolingbroke, che pian piano assume la fisionomia del pretendente al trono. Diamo uno sguardo alle cronache dell’epoca (Shakespeare utilizzava principalmente quelle di Holinshed): Enrico, figlio di Gaunt ed erede dei Lancaster, viene mandato per sei anni in esilio; alla morte di suo padre, pochi mesi dopo, Riccardo non ci pensa su due volte a privarlo dell’eredità per finanziare, con le sue ricchezze, una guerra in Irlanda. In una situazione di crescente malcontento popolare, con un re incapace di amministrare il proprio regno e persino di mantenere buoni rapporti coi nobili a lui più vicini, Enrico ha gioco facile nel fare ritorno in Inghilterra acclamato dal popolo e appoggiato dai potenti.
Si configura dunque uno scontro tra due personalità radicalmente opposte. Da un lato l’anointed king, il re consacrato per diritto divino, che dà per scontata la propria posizione e non si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni: mandare in esilio, aumentare a piacimento le tasse che gravano sulla popolazione, giocare a fare la guerra, tutto è concesso a Riccardo II; dall’altro lato Enrico, un vero combattente – tant’è vero che, in molte rappresentazioni, Riccardo è abbigliato in maniera sfarzosa, è tutto apparenza, in contrapposizione alle vesti marziali di Enrico – ingiustamente punito, che torna in patria solo per rivendicare l’eredità che gli è stata sottratta.
Tuttavia, gli eventi corrono precipitosamente e, con l’appoggio crescente che Bolingbroke riceve, rivendicare la corona è quasi un passaggio obbligato.
Due sovranità a confronto
Shakespeare mette dunque in scena non solo due caratteri diversissimi, ma due diversi modi di ottenere e conservare il potere. Si tratta del passaggio da una concezione ancora medievale, in cui nulla può mettere in discussione il potere del sovrano, a una concezione più moderna, che passa necessariamente per l’appoggio, se non del popolo, almeno dei ceti privilegiati. Una volta tornato in Inghilterra, Bolingbroke ha praticamente già vinto: privato dell’esercito per una serie di congiunture sfavorevoli, privato persino dei suoi consiglieri più fedeli, non c’è neppure bisogno di uno scontro per decretare l’ascesa di Enrico; Riccardo dovrà solo “prestarsi” a cedergli la corona volontariamente.
La “statura” dei due re
Tuttavia proprio quando Riccardo si trova nella posizione più svantaggiata, poco prima della sua (auto)deposizione (I will undo myself, afferma) accade qualcosa che mette Enrico completamente in ombra: il monologo, dolente e quasi delirante, del re che per la prima volta nella sua vita è stato riportato coi piedi per terra. Deluso e sconvolto, Riccardo continua ad essere protagonista della scena, che usa letteralmente come paragone per il succedersi dei re sul trono: la corona è un simbolo vuoto di un potere temporaneo e vano, costantemente minacciato dalla Morte , e ad ogni re è concesso solo un breve momento di gloria per essere temuto e spadroneggiare prima che un nonnulla, la punta di uno spillo, lo getti nella polvere.
Di fronte a un tale sfoggio di eloquenza (forse l’unica abilità in cui Riccardo eccelle), Enrico non può far altro che tacere: è un silent king di fronte al fiume in piena della sofferenza del re deposto.
For within the hollow crown
That rounds the mortal temples of a king
Keeps Death his court and there the antic sits,
Scoffing his state and grinning at his pomp,
Allowing him a breath, a little scene,
To monarchize, be fear’d and kill with looks,
Infusing him with self and vain conceit,
As if this flesh which walls about our life,
Were brass impregnable, and humour’d thus
Comes at the last and with a little pin
Bores through his castle wall, and farewell king! [1]
Simbologia del potere
L’immagine della corona, la “hollow crown” ripresa dalla BBC come titolo della serie dedicata ai drammi storici di Shakespeare – il cui primo episodio è proprio Riccardo II – ricorre in maniera quasi ossessiva nelle parole e nei gesti del protagonista di quest’opera. Quando Bolingbroke sta per riceverla dalle mani di Riccardo, ad esempio, si crea un momento di tensione quasi comico in cui il re, come un bambino capriccioso, la tiene salda tra le mani e sembra voglia porla nuovamente sul proprio capo.
Regalità e divinità
Come accennato in precedenza, vi sono molte immagini, perlopiù a tema religioso, che ricorrono variamente nei drammi dedicati ai sovrani, ma sono tutte presenti in Riccardo II. C’è ad esempio l’identificazione tra re e dio: Riccardo si pone al di sopra di qualsiasi legge o giudizio (Gaunt lo definisce God’s substitute), ha diritto insindacabile di vita e di morte sui propri sudditi, crea e disfa secondo un proprio capriccio le sorti dei suoi sottoposti. Una simile identificazione è presente in Amleto, che descrive il padre morto paragonandolo a Giove, Marte, Mercurio.
C’è, inoltre, la funzione tutelare del dio verso il sovrano: alla scoperta dell’arrivo di Bolingbroke, Riccardo inizia a vaneggiare: parla di un esercito divino pronto a prendere le sue parti, non potendo concepire che un re possa essere sconfitto, di una schiera di angeli che lo difenda da qualsiasi minaccia. Un simile intervento è presente in Riccardo III allo scopo di deporre il sovrano malvagio e porre sul trono il meritevole Richmond, futuro Enrico VII: inutile dire, però, che in Riccardo II Dio non c’è.
Vi sono infine elementi biblici ricorrenti: ad esempio Riccardo si appresta, dismessi i panni del re, a vestire quelli di martire e persino del martire per eccellenza, Cristo. So Judas did to Christ: but He, in twelve,/ found truth in all but one; I in twelve thousand, none: talmente grande è il suo ego regale, da considerare la propria sofferenza estremamente più grande di quella patita da Cristo a causa del tradimento di Giuda. Simili riferimenti si trovano ampiamente nel “devilish” Macbeth, che ha usurpato la sovranità legittima del “sainted King” Duncan.
Re come poveri attori
Riccardo II è, in conclusione, il dramma storico che meglio si presta a discutere il tema della sovranità in Shakespeare. Che il re sia meritevole o meno, che sia davvero capace di governare o in balìa dei suoi stessi capricci, che sia posto sul trono legittimamente o che l’abbia usurpato, preso con la forza bruta o con la persuasione, la sensazione che quest’opera lascia (avallata dall’instabilità del regno di Enrico, subito minacciato da più di una ribellione) è della precarietà della posizione del sovrano. Per usare una metafora tanto cara al Bardo, quella della vita come un teatro, prendiamo in prestito le parole di Macbeth dopo la morte della moglie: anche il re è un povero attore. A poor player, that struts and frets his hour upon the stage and then is heard no more.
Maria Fiorella Suozzo
Fonti e traduzioni
King Richard II, The Arden Shakespeare (Bloomsbury), edited by Charles R. Forker
Il cerchio d’oro: i re sacri nel teatro shakespeariano, Rossella Ciocca, officina edizioni
[1] “Ché entro la vuota corona che cinge le tempie mortali di un re, tiene corte la morte: e là s’insedia, beffarda, irridendo al potere di lui, ghignando alla sua pompa, concedendogli un breve respiro, una particina – sovraneggiare, incuter timore, fulminar con lo sguardo – facendolo pieno di sé, quanto di vuote illusioni, come se questa nostra carne, prigione dello spirito, fosse di bronzo indistruttibile. E dopo averlo così lusingato, viene alla fine, e con uno spillo da nulla perfora le mura di quella fortezza, e addio re!” (da Riccardo II, ed. Garzanti)