Pietro Abelardo (1079-1142) spicca tra le personalità di maggior rilievo del suo tempo. Il filosofo bretone emerge per la forza innovativa con cui è condotta la riflessione nei principali ambiti del sapere. In particolare, il suo tentativo di indicare la via di accesso alla comprensione del vero in un profondo legame di fede e ragione, di logica e teologia, dimostra tutta la fecondità – talvolta dimenticata – della filosofia medievale.
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Abelardo: capire per credere
Abelardo assegna un ruolo di preminenza alla ricerca razionale, respingendo ogni acritica adesione al principio di autorità. Senza mai disgiungere la sua riflessione dall’orizzonte teologico, egli ritiene che soltanto una fede ‘’ragionata’’, soppesata ed indagata dialetticamente possa condurre alla vera sapienza. Viene così ricuperato quel monito agostiniano, intelligo ut credam, che invita tanto l’uomo di fede quanto il gentile ad indagare l’opportunità di prestar fede al dogma o a qualsivoglia insegnamento.
Ricorrendo all’applicazione dei metodi dialettici, Abelardo tenta così di chiarire il valore semantico e il contenuto intellettuale dei dogmi cristiani. Nell’opera Sic et non, ad esempio, il filosofo mostra come le opinioni dei Padri della Chiesa su alcune delle più importanti questioni teologiche siano tra loro in contrasto. Come in ogni altro ambito del sapere, anche in materia di fede soltanto affidandosi alla propria capacità speculativa sarà possibile sciogliere le contraddizioni.
La disputa sugli universali
Ma la passione di Abelardo per la logica lo spinge ad intervenire nella tradizionale disputa sugli universali.
La discussione intorno alla natura degli universali era nata nella scolastica in seguito alla traduzione di Boezio della Isagoge di Porfirio, testo introduttivo alle Categorie di Aristotele. In questo preambolo all’opera aristotelica, Porfirio aveva posto il problema della natura dei termini che indicano il ‘’genere’’ e la ‘’specie’’:
[…] se questi – generi e specie – siano sussistenti di per sé o se siano semplici concetti della nostra mente; e, nel caso siano sussistenti, se corporei o incorporei; e, per finire, se siano separati o se si trovino nelle cose sensibili, a queste inerenti.
Abelardo cerca di risolvere questi interrogativi, aggiungendo ai quesiti di Porfirio una quarta domanda: se non esistessero le rose, che senso avrebbe la parola rosa?
Il dibattito aveva dato origine a due distinti filoni interpretativi: il realismo e il nominalismo. Realisti si definivano i logici che consideravano i concetti universali delle res, che esistono indipendentemente da noi, come ‘’essenze’’ delle cose particolari. Nominalisti, invece, erano coloro che negavano la realtà dei termini universali. Questi erano considerati come puri flatus vocis, alla stregua dei nomi comuni con cui in grammatica si indicano gruppi di cose aventi caratteristiche simili.
Abelardo e la Logica ingredientibus
Abelardo si pone a metà strada tra le due soluzioni. Nella sua Logica per principianti egli afferma che l’universalità non è che la funzione logica di certe parole. Quando diciamo ‘’Socrate è uomo’’ e ‘’Platone è uomo’’, la parola uomo è usata per indicare uno status comune ai due individui, il loro concreto esser-uomo. Non si tratta di ammettere che la medesima essenza – quella di uomo – esista in se stessa e contemporaneamente in ciascun individuo di cui si predica. Abelardo, sostiene, infatti:
Universale è ciò che, nativamente, è atto ad essere predicato di più individui. Questa proprietà gli deriva dalla stessa origine, cioè dal fatto di essere una ‘’istituzione’’. […] E così noi chiamiamo universali quei termini, i quali nativamente, cioè per istituzione umana, sono posti ad essere predicati di più individui.
Abelardo dunque considera gli universali come dei ‘’sermones’’, come dei termini convenzionalmente preposti ad esprimere significati universali, ossia delle possibilità o maniere d’essere degli enti reali. Essi hanno realtà, ma solo su un piano logico-linguistico.
Abelardo: il valore delle intenzioni
L’incidenza sul tema del senso del dogma e del significato delle parole conduce Abelardo ad esplorare da una punto di vista logico anche la sfera dell’etica. Il tratto innovativo della sua riflessione consiste nell’aver ricondotto la responsabilità delle azioni all’intenzione della coscienza. Abelardo attribuisce all’intenzione, che precede ogni atto pratico, una funzione analoga a quella svolta dal significato delle parole. L’intenzione è infatti l’espressione logico-etica dell’orientamento all’universale, che è il Sommo Bene (o di un disorientamento, rispetto ad esso). L’azione non è che la traduzione pratica dell’intenzione, che è dunque la sede di ogni vizio e di ogni virtù.
L’etica: conosci te stesso
Nell’ Etica (il cui sottotitolo è Scito te ipsum), Abelardo espone la sua filosofia morale a partire dall’analisi del concetto di peccato. Ogni uomo, come essere sensibile, è strutturalmente un essere desiderante. È il desiderio il movente extra-razionale dell’agire, ma la riflessione deve intervenire a valutare le inclinazioni apponendovi il suo consenso consapevole. Pertanto, il peccato nasce da un consenso consapevole al desiderio del male.
Il rimando al socratico Conosci te stesso è ripreso da Abelardo nell’intento di chiarire il suo interesse per quella ratio naturale che, come una luce interiore, conferisce ad ogni uomo la capacità di discernere fra bene e male. Ciò significa respingere ogni forma di adesione acritica al precetto di fede. La qualità morale dell’azione non risiede nella sua esteriorità, ma nella ferma volontà di volgerla al bene. Per questo, secondo Abelardo, le cattive azioni possono essere involontarie, così come le azioni apparentemente virtuose possono nascere da intenzioni malvagie.
Legge naturale e legge divina
Nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Abelardo scrive:
Anche il tiranno e il principe possono servirsi male e bene della stessa spada: quegli in verità per compiere violenze, questi per punire giustamente. Credo che tutti gli strumenti e tutte le cose di cui ci serviamo possono essere usati bene o male a seconda della qualità morale dell’intenzione; non è dunque importante a questo fine sapere che viene fatto qualcosa, ma conoscere con quale animo è fatto.
Collocando nell’interiorità individuale il luogo della determinazione morale, Abelardo ritiene che solo Dio possa giudicare le nostre azioni, perché solo Dio può leggere nelle profondità del nostro animo. La sapienza divina è così equiparata a quella legge naturale che ha fatto dei filosofi antichi, da Socrate a Seneca, maestri di virtù. Ciò che, infatti, i cristiani chiamano Cristo e Sapienza divina, i filosofi chiamano Logos ed Etica.
Martina Dell’Annunziata
Bibliografia
P. Abelardo, Conosci te stesso o Etica, a cura di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1976
P. Abelardo, Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano, trad. di C. Trovò, Rizzoli, Milano 2000
E. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XVI secolo, BUR, Milano 2001
Media
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