Viviamo in un mondo devastato dai cambiamenti climatici, da una spietata industrializzazione che distrugge le nostre terre senza che ce ne rendiamo conto. Viviamo in un mondo dove uomini esattamente come noi vivono in condizioni sempre più precarie o sono costretti a fuggire dal loro Paese per provare a sopravvivere. Viviamo in un’epoca che rischia di perdere il sale della Terra, costituito non solo da noi esseri umani, ma anche dagli animali, dalle foreste, dai fiumi, diventando insapore.
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Il sale della Terra: il documentario di Wenders sull’arte della fotografia
Il sale della terra è un documentario del 2014 sulla vita e le opere del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, ad opera di Wim Wenders, celebre ed eclettico regista esponente del Nuovo Cinema tedesco, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1984 con “Paris, Texas“, e di Juliano Ribeiro Salgado, figlio del fotografo. Il sale della Terra ha avuto un grande successo internazionale, lodato soprattutto per la capacità di coniugare alla volontà descrittiva e documentaristica l’abilità di creare un prodotto artisticamente valido ed esteticamente ed emotivamente coinvolgente, che legittima la profondità e validità artistica ed emozionale della fotografia.
Candidato al Premio Oscar nel 2015 come “miglior documentario“, non è riuscito a portare a casa la statuetta.
Salgado e il ”punctum” che colpisce ognuno di noi
Quest’opera celebra uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi, Sebastião Salgado, la sua vita e le sue grandi imprese, dando modo a chiunque – appassionati di fotografia e non – di fruire, senza troppi problemi di conoscenze pregresse, della sua espressione artistica. L’omaggio reso a Salgado si muove sulla stessa linea sulla quale si muove, come un equilibrista, il fotografo brasiliano, senza tradire la sua personale poetica fotografica.
La forza delle sue fotografie che riesce a comunicare qualcosa di segreto e inaspettato allo spettatore, ciò che Barthes definirebbe “punctum“, un dettaglio che balza all’occhio e suscita qualcosa nel profondo dell’animo. Che questo dettaglio sia apprezzabile esteticamente o meno – e con Salgado lo è prevalentemente – non fa differenza. Riuscirci in modo così naturale è per pochi.
La vita di un uomo come un film ricco di colpi di scena
Il sale della Terra narra l’incredibile storia di Salgado, che a 29 anni (nel 1973) abbandona una promettente carriera da economista a Parigi per alimentare la passione sviluppata viaggiando con sua moglie Lelia Wanick, cominciando con foto da reportage che riguardano il continente africano, che lo affascina da sempre. Difatti è proprio un viaggio in Africa per lavoro che spinge alla fine Salgado a compiere la decisione di fare della fotografia la sua vita. I suoi primi lavori fotografici avvengono in Nigeria, nel 1973.
Nel corso di tanti anni di carriera, va ovunque, avendo modo di descrivere ciò che succedeva nella Sierra Pelada, in Brasile, dove un’intera popolazione era ”schiava’’ dell’avidità di arricchimento a causa delle miniere, camminando avanti e indietro per lunghe scale con pesanti sacchi di fango in cui sperava di trovare l’oro.
Successivamente giunge nelle campagne dell’America Latina (The Other Americas), spesso arretrate di secoli sul piano di conoscenze di tecniche agricole.
Documenta le tragiche condizioni di molti popoli africani (Sahel), per cui tantissime persone morivano senza alcun sostegno delle istituzioni politiche, come in Etiopia, dove il governo tratteneva i viveri destinati al popolo.
Mostra lavoratori posti in situazioni di disagio (Workers), recandosi in Kuwait nel 1991, a seguito dell’ordine di Saddam Hussein, leader iracheno, dopo la prima Guerra del Golfo, di dare fuoco a centinaia di miniere di petrolio. Le foto che scatta in questi luoghi sono estremamente suggestive e spettacolari. Una situazione tragica che ha un suo fascino oscuro. Egli racconta anche della distruzione del Parco della Famiglia Reale del Kuwait, dove a pagarne sono state le specie animali, come i cavalli, diventati pazzi, oppure gli uccelli, che non potevano volare perché avevano le piume incollate a causa del petrolio.
Fotografa il dramma delle migrazioni dei popoli (Exodus), recandosi in Ruanda, dove trova l’Inferno sulla Terra. Le esplosioni delle bombe, l’abbattimento nel 1994 dell’aereo con il dittatore del Ruanda Juvenal Habyarimana, le uccisioni con machete. Un vero genocidio.
“In Ruanda vidi la brutalità totale. Vidi persone morire a migliaia ogni giorno e persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere. Fu a quel punto che mi ammalai.”
È qui che Salgado decide di abbandonare la fotografia. Nonostante i suoi enormi sforzi, si arrende di fronte alla brutalità dell’umanità. È sempre la moglie Lelia che si pone come fondamentale elemento di cambiamento della sua vita, proponendogli di riforestare le terre di proprietà della famiglia, diventate un deserto per tanti anni di siccità, nella zona della Mata Atlantica. Nei 10 anni seguenti avviene un vero miracolo, il progetto prende il nome di ”Instituto Terra’’, con due milioni e mezzo d’alberi piantati e il ritorno di animali come giaguari. E’ questa la scintilla di vita che gli permette di creare Genesis, il suo più maestoso manifesto d’amore all’umanità.
Genesis: lode all’armonia del Creato
“C’è un piacere nei boschi senza sentieri, c’è un’estasi sulla spiaggia desolata, c’è una vita, laddove nessuno si intromette, accanto al mar profondo, e alla musica del suo sciabordare: non è ch’io ami di meno l’uomo, ma la natura di più” – George Gordon Byron
La splendida poesia di Byron (presente nell’incipit del film ”Into the Wild’’, altro grande esempio di ricerca di se stessi attraverso l’immersione in una realtà selvaggia, lontana dalla civiltà), esprime alla perfezione quanto compiuto da Salgado in Genesis (di cui si registra una mostra presente al Palazzo delle Arti di Napoli, dal 17 ottobre 2017 fino al 28 gennaio 2018). Un’odissea nel mondo vergine della natura, che non gli ha fatto scoprire semplicemente la bellezza del mondo, ma che gli ha fatto ritrovare anche fiducia nella specie umana.
Salgado esplora tutti i continenti, affronta il caldo torrido dei deserti africani, il gelo dell’Antartide, vaga per le foreste amazzoniche, scala le montagne dell’America del Sud, mettendo spesso anche in pericolo la sua vita, con un unico obiettivo in mente: dimostrare che esistano luoghi che non sono stati contaminati dall’uomo, dalla modernità distruttrice, dalla “civilizzazione” che uccide l’ambiente.
Vuole dimostrare che esistano territori ancorati alla Genesi, all’origine dei tempi, come in un Eden senza tempo, dove passato e presente si annullano vicendevolmente, per cui l’uomo e la natura – animali e vegetazione – possono vivere pacificamente in simbiosi.
Le sue foto e l’idea di un tempo e luogo paradisiaco rimandano a dipinti di grande valore, come “Il giardino delle delizie” – in particolare il pannello centrale – di Bosch, pittore olandese cinquecentesco, che nel suo maggiore capolavoro aveva raffigurato in modo splendido, con una rappresentazione di grande impatto visivo ed emozionale, un luogo di armonia tra tutti gli esseri viventi, un’utopia visionaria di serenità, un vagheggiamento di ritorno al Paradiso Terrestre perduto dopo aver espiato il peccato originale. Un grande ”mosaico” la cui monumentalità sta nel riuscire ad apprezzare e cogliere l’unione di vari elementi, la molteplicità presente e la scrupolosità nella rappresentazione.
Il sale della Terra: Salgado esploratore del mondo
Salgado si pone come un moderno Cristoforo Colombo, o, per ‘’mitizzare’’ ancora di più la sua figura, come un moderno Ulisse. Un esploratore, una persona profondamente curiosa con un’incredibile passione, talento e volontà a sua disposizione, che trasforma la ricerca non solo in un lavoro di reportage, ma in un vero e proprio viaggio di (ri)scoperta del mondo, da divulgare come se fosse investito da una missione personale che va al di là della fotografia.
D’altronde, come detto dallo stesso Salgado nel film, parlando delle foto scattate alla tribù dei Saraguro in Ecuador, Guadalupe, un suo amico di quella tribù, era convinto che Sebastião fosse stato mandato dalle divinità sulla Terra per poter osservare gli esseri umani, riferendo tutto successivamente, in modo che le divinità potessero capire chi meritava il Cielo e chi no.
Salgado “fotografo militante”, difensore dell’umanità
In Salgado è evidente la prevalenza della tematica sociale e antropologica, la sua è una “fotografia militante“, come detto da alcuni esperti, in quanto egli ha un interesse fortissimo per le condizioni dei più deboli, per la natura, per il fenomeno delle migrazioni, per i continenti meno intaccati dal ‘’mito della modernità’’. Come detto dallo stesso Wenders all’inizio del film: “A Salgado importava davvero degli esseri umani“.
Attraverso la finitezza dell’immagine cinematografica – e soprattutto delle fotografie che hanno ispirato il documentario – vi è l’intenzione di aprire un varco al di là delle barriere che ognuno pone verso la diversità. L’occhio fotografico ci aiuta a spalancare gli occhi – spesso chiusi perché intorpiditi dalla vuotezza – verso fenomeni, persone e ambienti a cui bisognerebbe dare più importanza, senza avere limiti (geografici e mentali). Il medium fotografico e cinematografico divengono un unicum, nella missione di celebrazione dell’immensità del Creato.
L’opera di Salgado è una specie di romanzo di formazione, in cui egli dapprima annuncia e denuncia le violenze che l’uomo ha compiuto (dichiarandosi sconfitto per l’eccessiva crudeltà) e poi assume il ruolo di difensore dell’umanità, dimostrando che è possibile cambiare la storia, a partire da noi esseri umani. Il sale della Terra diviene dunque completamento perfetto di questo processo: è ekphrasis – descrizione di un’opera d’arte visiva – non invadente, dell’intera opera (e vita) di un uomo.
Fotografie in bianco e nero espressione della verità, in un luogo senza tempo
Lo stile di Salgado è caratterizzato dall’uso costante del bianco e nero per le sue foto, a discapito dei colori, visti quasi come ‘’distrattori’’ rispetto ai soggetti rappresentati. La potenza espressiva ed artistica dei colori è innegabile, ma ciò che fa Salgado è un processo d’astrazione in maniera quasi aristotelica, in modo da poter cogliere l’essenza, la verità che le immagini contengono, che può essere compresa solo dall’intelletto. Ancora Barthes, parlando ne ‘’La Camera Chiara’’ del colore in fotografia, dice: ‘’il colore è un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco-e-Nero’’.
Egli inoltre sottrae alla vista del pubblico i colori per non fornire ulteriori dettagli sul tempo e sullo spazio – al di là delle conoscenze di base che potremmo possedere da prima – in cui è avvenuto lo scatto. Un modo per permetterci di immergerci con più trasporto sentimentale, un modo per condurci veramente in un punto senza tempo e senza uno spazio geografico preciso, per annullare qualsiasi distanza temporale e spaziale.
Il sale della Terra modo per regredire ad un’infantile innocenza
La tenera ammirazione del figlio Juliano, che vede il padre come un vero modello da seguire (spesso è stato anche suo compagno di viaggio nelle sue escursioni oltreoceano), e quella di Wenders indicano come questa sia un’opera fondata sull’ammirazione. Il documentario trascina lo spettatore in un universo di pura empatia, non è astratta descrizione asettica di eventi e opere, ma un lavoro compiuto con grande cura e rispetto.
Il sale della Terra offre dunque in modo accurato tanti spunti di riflessione, dando inoltre a tutti noi la possibilità di vedere il mondo diversamente, quasi regredendo ad un’infantile innocenza, per cui niente è scontato e dove la meraviglia – e a volte anche il dolore, se necessario – pervadono i nostri sensi, permettendoci di non restare mai indifferenti.
Emanuele Rubinacci