Bruce Springsteen, in un’intervista del 2012, ha affermato: «Gran parte del mio lavoro è stato indirizzato a misurare la distanza tra la realtà americana e il “sogno americano”».
Questo è il “filo rosso” seguito dal rocker statunitense in quarant’anni di carriera: riflettere sull’American Dream, quella chimera su cui intere generazioni hanno basato le proprie aspettative, fondata sull’esistenza e il rafforzamento della classe media.
Scoprire il vero volto di quella chimera è, dunque, sempre stato il suo obiettivo:
“Trenta milioni di persone, negli Usa, nella nazione più efficiente sulla terra, vivono in povertà. Questo andrebbe affrontato. E non mi sembra che lo sia. Non in modo sistematico, almeno. Manca un leader con una visione, manca idealismo tra la gente. Mi chiedo se esista la volontà di affrontare certi problemi. O se invece non abbiamo deciso di segregare quelle persone, di non vederle e non sentire la pena delle loro vite”.
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Bruce Springsteen: “a runaway American Dream”
Bruce Springsteen, già nel 1980, alle porte dell’epoca reaganiana, si chiede in “The river”: “Un sogno che non si avvera è una bugia, o qualcosa di peggio?”. La risposta giunge due anni dopo, nel 1982, in un disco solo voce e chitarra intitolato “Nebraska”, dove Bruce dichiara disincantato la fine delle speranze giovanili in un’America equa, ricca e giusta.
Nel brano “Johnny 99″ racconta, infatti, la storia di un disoccupato come tanti, schiacciato dai debiti, che diventa criminale per disperazione e perciò è condannato a cento anni di prigione da un giudice, a cui Johhny stesso chiede la condanna a morte al posto della detenzione.
Johnny è il nome in cui si riconoscono le vittime del “Sogno Americano” che, negli anni Ottanta, ha trasformato gli USA in un Paese che corre verso l’individualismo più sfrenato e edonistico, verso un capitalismo senza cuore per i deboli.
Nascere negli U.S.A.: “this land is your land”
In questo clima di crisi degli ideali il rock sembra morto, anche perché sono morte le grandi rockstar, travolte dal denaro, dalla droga, dal successo.
Eppure, nel 1984, sui piatti dei giradischi arriva un altro album di Bruce Springsteen: “Born in the U.S.A.”. Le prime note sono sorprendenti: niente chitarra, ma una tastiera sostenuta da una batteria che batte ossessivamente un solo colpo, meccanico e continuo.
Su questo suono irrompe una voce che grida, una voce che ha ancora qualcosa da dire. Springsteen, accompagnato dalla sua E-Street Band, intende far cadere il velo dell’inganno dietro il quale si nasconde il vero volto americano.
“Sono nato negli Stati Uniti”, urla, consapevole che quegli Stati Uniti in cui è nato non sono gli stessi che vede adesso, ed esprime l’orgoglio di chi pensa che il rock sia molto più che un genere musicale.
Bruce con la sua musica non vuole mutare il mondo: non si illude che Reagan inverta la rotta di una politica egoistica e corrotta o che le multinazionali diventino all’improvviso sensibili alle questioni sociali; crede, però, che chi ascolta la sua musica possa ancora cambiare ed essere salvato.
Per molti “Born in the U.S.A.” è il più grande album che Bruce Springsteen abbia mai realizzato, per altri è il disco che segna gli inizi del suo declino.
Forse sono veri entrambi i giudizi; certo è che Springsteen, con questo lavoro, riporta la musica dalla parte dei diseredati, dei dimenticati, di quelli che non pensano che il denaro sia dio, che immaginano un futuro collettivo e non individuale, che recuperano i sogni che hanno da sempre animato il progresso degli U.S.A., i sogni di Woody Guthrie che canta “This Land is Your Land”.
Con “No Surrender”, infatti, spiega ai ragazzi che il “wide open country” è ancora lì, davanti ai loro occhi, e può essere raggiunto.
Il fantasma di Tom Joad
Il richiamo della collettività lo trascina nuovamente in campo quando i semi del reaganismo fioriscono nella globalizzazione e nel “nuovo ordine mondiale”.
L’album “The ghost of Tom Joad” è il de profundis definitivo del “sogno americano”. Ma chi è il Tom Joad di cui si parla?
Tom Joad è il nome del protagonista del romanzo “Furore” di John Steinbeck, pubblicato nel 1939: questo personaggio affronta, negli anni della Grande Depressione, insieme con altri diseredati, una biblica trasmigrazione dall’Oklahoma, lungo la famosa Route 66 (che conoscerà altre storie letterarie, tra le quali quella di Kerouac), fino alla California in cerca di un modo di vivere nuovo, ma vi troverà solo il modo di sopravvivere, a causa di salari da fame, lavori da schiavi e padroni spietati.
Questa è la storia del Tom Joad di Steinbeck; ma Springsteen vuole raccontare la storia dei Tom Joad di oggi, vittime di un “nuovo ordine mondiale”, uomini e donne senza speranza, che affollano ancora l’autostrada, luogo simbolo per la generazione beat.
Bruce Springsteen esegue “The Ghost of Tom Joad” in apertura del Festival di Sanremo del 1996.
Bruce Springsteen nell’era Obama: il sogno è tornato?
Nel 2009 pubblica, poi, un album dal titolo emblematico: “Working On A Dream”. Dopo aver cantato per anni il tradimento di un paese nei confronti dei propri figli, Springsteen, vestendo i panni del vecchio saggio, torna a celebrare la capacità di cambiamento dell’America.
L’album è un omaggio senza mezzi termini a Barack Obama, il Presidente che sembra riportare fiducia e speranza in un mondo diverso: “Il sole sorge, salgo la scala, un nuovo giorno è arrivato”.
Anche dal punto di vista musicale, “Working on a a dream” è un ritorno alla musica spensierata degli anni ’60, con riferimenti neanche troppo velati ai Byrds, ai Beach Boys, ai Beatles, al suo idolo Roy Orbison.
“Hard times come, hard times go”
Negli anni successivi, però, la fiducia di Bruce in Obama e nei politici entra in crisi: il mondo gli appare travolto dalla logica di un progresso spietato, che stritola nei suoi ingranaggi i più deboli, che non riconosce alcun principio etico.
Il Boss si chiama fuori da quel gioco in cui ha per un po’ creduto e, rivolgendosi alle persone comuni, le invita a mantenere intatti i propri valori anche quando una palla da demolizione, la “wrecking ball” che dà il titolo all’album del 2012, arriva a spianare il terreno per farci un parcheggio.
Si schiera contro tutto, le banche prima di ogni altra cosa, perché non crede alla favoletta per la quale la crisi di questi anni è l’inevitabile figlia della globalizzazione e non una tragica truffa finanziaria ai danni degli elettori.
Quando pubblica “Wrecking ball”, Bruce Springsteen ha 63 anni. Ormai si è convinto che quel sogno a cui sono state educate intere generazioni era una bugia, ma non c’è in lui disperazione.
Da un’analisi dei testi e delle musiche è molto chiaro dove il Boss riponga la speranza per un’America (e un mondo) migliore: la comunità. Eppure, il singolo di apertura di “Wrecking Ball”, l’inneggiante “We take care of our own”, viene frainteso come un’esortazione a curarsi di sé, in una sorta di chiusura egoistica davanti al crollo delle illusioni.
In realtà, e il video collegato alla canzone lo dimostra chiaramente, quel “we” e quell’“our own” sono indicazioni potentemente collettive, rappresentando la distanza tra noi e loro: loro sono i “grassi gatti” di Wall Street, quei banchieri “che s’ingrassano, mentre chi lavora s’assottiglia”.
Insomma, è nella comunità solidale che rinnega individualismo ed egoismo che si può trovare quella “cura”, quel “tocco umano” che dà senso alla vita, molto più che in un sogno-bugia fabbricato per illudere le masse e per garantire l’arricchimento di pochi.
Al di sotto della veste rock si trovano richiami a blues, country, folk e gospel, alla musica di sempre dell’America, per parlare direttamente al suo cuore genuino.
Il richiamo è univoco: noi, la comunità, riprendiamoci lo spazio, la vita, il futuro. Ed è significativo che Bruce appaia, nel video di “We take care of our own”, mentre si allontana oltre una porta con la scritta “Exit”.
A chi gli ha chiesto perché ha inciso questo disco, Bruce ha risposto:
“Amici costretti a disfarsi della casa in cui vivevano, per colpa di una crisi economica sanguinaria, ma nessun colpevole che finisce in galera; così ho capito che non mi sarei potuto occupare d’altro che non fosse la distanza tra il sogno americano e la realtà delle cose, perché è, da sempre, ciò che faccio nelle mie canzoni”.
“Exit” è la scritta sulla porta che il Boss ha deciso di oltrepassare. L’uscita dal “Sogno Americano”, l’ingresso nel mondo vero.
Luca Florio
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