A partire dall’anno 1256 gli Agostiniani sono presenti nella città di Napoli con un proprio convento. Si tratta di quello di San Vincenzo nella regione di Forcella donato loro dalla badessa Galiana, che prenderà poi il nome di Sant’Agostino alla Zecca. Nel corso del Trecento gli agostiniano provvederanno alla costruzione di un secondo convento, questa volta fuori dalle mura orientali. San Giovanni a Carbonara sarà destinato a trovarsi al centro di complesse dinamiche politico-dinastiche, urbanistiche e religiose a partire dal regno di Ladislao di Durazzo.
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Costruzione del monastero
Molto prima dell’arrivo di Ladislao di Durazzo, i lavori di San Giovanni a Carbonara iniziarono nel novembre del 1343. San Giovanni a Carbonara fu fondato per iniziativa di un nobile napoletano, Gualtiero Galeota che donò case e orti posti fuori dalle mura della città di Napoli, nel luogo detto Carboneto affinché gli Agostiniani vi edificassero una chiesa e un convento intitolati a San Giovanni Battista. Non sappiamo molto del Galeota però sappiamo per certo che qualche anno prima aveva finanziato la costruzione di un monastero francescano a Portici che però non venne mai costruito.
Quindi si dedicò a questo nuovo progetto degli Eremiti di S. Agostino. I lavori si conclusero nei primi decenni del XV secolo con il rifacimento della chiesa voluto da re Ladislao di Durazzo e da Giovanna II. Data la sua posizioni fuori dalle mura, San Giovanni a Carbonara favorì il miglioramento e la riqualificazione dell’area proprio come i monasteri di Santa Chiara e San Pietro Martire ( il primo edificato in una zona poco urbanizzata, il secondo nella zona del porto che all’epoca si presentava molto degradata e malfamata).
Gli Angioini e l’intégration manquée
Se gli Aragonesi trovarono nel monastero di San Domenico il centro ideali e quell’ancoraggio culturale e spirituale tanto da renderlo il loro famedio gli Angioini ebbero più difficoltà a trovare un centro unico.
Il monastero di Santa Chiara fu costruito per essere principalmente il famedio degli Angioini però soltanto il figlio di Roberto, Carlo l’Illustre, venne sepolto lì perché la Certosa di San Martino, da lui voluta e costruita, all’epoca della sua morte non era ancora terminata. Dobbiamo quindi presumere che se fosse stata terminata Carlo si sarebbe fatto inumare nella nuova costruzione.
Nel monastero di Santa Chiara vennero sepolti anche Roberto e Giovanna I ma questa non fu la loro prima scelta. Inoltre a Sancia venne ordinato di provvedere alla realizzazione di sepolcri a nome di Carlo I, del fratello Carlo Martello e di sua cognata non nel monastero bensì nella cattedrali di Napoli.
Alcuni Angioini come Carlo I restarono fedeli alla madrepatria francese facendosi seppellire lì. Altri ancora, come Luigi da Taranto, puntarono su ordini completamente diversi da quello Francescano come quello Agostiniano.
Oscillazioni devozioni, quelle dei sovrani angioini, espresse in maniera eclatante nella casualità dei luoghi di sepoltura dei propri corpi e che possono essere interpretate anche come componente di un più vasto aspetto problematico della loro politica nel regno che ha indotto Patrick Gilli a parlare di intègration manquèe della monarchia francese tanto nel Mezzogiorno quanto nella città di Napoli.
Il fervore devozionale degli Angiò-Durazzo
Un nuovo cambiamento si registrò con l’avvento sul trono dei Durazzeschi ed in particolare con Ladislao di Durazzo.
Questi prima fece inumare in San Domenico la moglie Maria di Cipro dando così l’impressione di voler ripristinare il legame con il convento instaurato tempo addietro dal bisnonno Giovanni di Durazzo ma poi si volse verso di Agostiniani.
Nella loro chiesa di San Giovanni a Carbonara la sorella Giovanna II gli fece erigere uno splendido monumento funebre. Si tratta di uno degli episodi più alti della scultura gotica a Napoli. Con tale manovra la regina voleva rendere onore al fratello defunto e a tutta la stirpe durazzesca di ramo angioina.
Monumento funebre a Ladislao di Durazzo
Il monumento funebre di re Ladislao di Durazzo a San Giovanni a Carbonara è un mastodontico organismo architettonico alto 14 metri. Si sviluppa verticalmente ed orizzontalmente a guisa di un enorme polittico addossato alle tre pareti dell’abside della chiesa. Il monumento è articolato in tre livelli.
Il primo livello vede su di un basamento marmoreo le quattro virtù cardinali (temperanza, fortezza, prudenza e magnificenza) sulla parete frontale che a mo’ di cariatidi sostengono gli altri scomparti del monumento.
Sul secondo livello è stata prodotta un’edicola marmorea ove si apre un arco a tutto sesto, al fianco del quale si allineano due altri archi trilobi. Al centro appaiono in tutta magnificenza re Ladislao di Durazzo e Giovanna II con paludamenti regali sul trono sedile. Ai loro fianchi sono collocate altre quattro virtù. Di lì a seguire una serie di altre edicole rette da paffuti pargoletti telamoni. Alla base ed al centro troviamo le statue di San Pietro e Paolo Apostolo, i Santi Andrea e Bartolomeo.
Il terzo ed ultimo livello è quello più complesso ed è interamente costruito sui motivi delle sacre regalità. In più è il livello che custodisce le spoglie del re.
Ladislao di Durazzo viene raffigurato mentre brandisce poderosa arma da taglio. La spada sguainata è il segno delle sue provvedute vittorie, motivo celebrativo esaltante le virtù militari del Sovrano condottiero.
Camilla Masullo
Bibliografia
R. Di Meglio, Ordini mendicanti, monarchia e dinamiche politico-sociali nella Napoli dei secoli XIII-XV, Salerno, 2017.
P. Gilli, L’intégration manquèe des Angevins en Italie: le tèmoignage des historiens.