C’era una volta, da Basile a Leone
C’era una volta… è un film del 1967 che, per il genere a cui appartiene, risulta essere una piccola pausa del regista dal filone dei film-inchiesta (cominciata con Salvatore Giuliano, 1962).
La storia trae ispirazione da alcune novelle del Pentamerone (o Lo cunto de li cunti 1634/36) di Gian Battista Basile. Ad esempio, il finale, ricorda la conclusione della storia che fa da cornice alla raccolta di fiabe: Isabella, come la principessa Zoza, smaschera l’inganno e si ricongiunge con il principe.
Ricorrente è il numero sette: le principesse, gli gnocchi, i bambini che trovano Isabella sulla spiaggia e sette sono i giorni che ha a disposizione Rodrigo per scegliere la sua sposa. Come anche ricorrente la farina: viene regalata al principe da San Copertino e sarà di nuovo la farina ad essere utilizzata come traccia da seguire per ritrovare Isabella.
Ci sono, poi, diversi elementi che potrebbero ricordare i film western di Sergio Leone: si susseguono inquadrature ampie sui paesaggi esterni e anche l’aspetto estetico dei personaggi che, sebbene siano stati scelti entrambi per la loro oggettiva bellezza, denotano una certa nota realistica (il sudore, i vestiti sgualciti, i capelli scompigliati).
«Era una favola raccontata con il gusto del reale»1
Il film comincia con il principe che cerca di domare un cavallo bianco, a quanto pare più cocciuto di lui, che non ne vuole sapere di obbedirgli. Ma è lo stesso cavallo bianco che poi docilmente si affiderà a Isabella, forse, proprio come il principe, ha anche lui bisogno di qualcuno che sia capace di tenergli testa.
Quando uno dei bambini dice «I principi non sono uomini, ma sono principi!» potrebbe far riferimento al fatto che, diversamente dalle favole a cui siamo abituati, non è il principe a impegnarsi in prima persona nella conquista della donna amata. Anzi, ci ritroviamo ad avere a che fare con un principe superbo, vendicativo, collerico, testardo e a tratti manesco. Isabella, poi, è una donna tutt’altro che fragile e indifesa: la Loren interpreta una ragazza che si è fatta da sola, che è indipendente, scaltra (l’espediente dell’asino) e pronta a far valere le proprie ragioni.
Importate è stata la figura di San Copertino, il quale non rappresenta il classico santo che predica di accettare passivamente il corso degli eventi. Anzi, convince Isabella a reagire, a ribellarsi e a farsi valere. Perché se si vuole una cosa bisogna agire, nulla ci viene regalato, nulla ci viene dato gratuitamente senza sforzo.
«Stanno arrivando gli altri santi! […] quelli che non devi stare a sentire; quelli che attaccano subito con la rassegnazione, che su questa terra siamo nati solo per soffrire e che la vita è soltanto un passaggio e basta.»
In C’era una volta elementi sacri e profani si alternano e convivono: la presenza delle streghe, il malocchio, il principe che viene ricoverato in un convento di suore ma queste per guarirlo chiamano uno stregone. Forse comincia già a farsi strada il fatto che l’uomo si sente sempre meno preso in considerazione dal dio che venera e che per certe problematiche ha la necessità di rapportarsi con dell’altro, con qualcosa di più immediato.
C’era una volta è considerato un film di secondaria importanza rispetto agli altri lavori di Rosi perché è un film atipico per un regista che è divenuto famoso con pellicole come Salvatore Giuliano e Le mani sulla città (1963).
La bellezza di questo film verrebbe fuori se si riuscisse finalmente a decontestualizzarlo, ad analizzarlo fuori da ogni pregiudizio legato al percorso dell’autore che, inevitabilmente, ne ha influenzato il giudizio fino ad ora.
«Non sapevo avessi tanto da dire sulla vita di tutti noi»2
Cira Pinto
1 Afferma lo stesso Rosi nell’intervista fattagli da Giuseppe Tornatore (Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, 2012).
2 Un invitato all’anteprima fatta al San Carlo di Napoli. Io lo chiamo cinematografo, pag. 246.