L’incompiuta opera tucididea trova un suo continuatore in Senofonte: storico ateniese appartenente al ceto dei cavalieri, dunque aristocratico, dotato di una raffinata e poliedrica cultura: fu allievo di Socrate sin dall’età di 20 anni.
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La sua vita lontano da Atene
Figlio di Grillo e Pandora, del demo di Erchia, nato intorno al 430 a.C. da una famiglia illustre, dopo la fine della guerra del Peloponneso combatté contro i democratici di Trasibulo e si ritrovò, dunque, tra i sostenitori della fazione più estremista degli oligarchici vicini ai Trenta Tiranni (404-403 a.C.); benché, poi, non risultasse compromesso nelle loro malefatte, fu costretto ad allontanarsi da Atene.
Dopo il ripristino della democrazia (403 a.C.) e la proclamazione dell’amnistia per quanti avessero collaborato con i Trenta (401 a.C.), Senofonte si allontanò da Atene per prendere parte alla Spedizione dei Diecimila: seguì Ciro il Giovane nella rivendicazione al trono di Persia contro il fratello Artaserse II, nella spedizione che Sparta aveva inviato in aiuto al persiano.
Morto il pretendente Ciro nella battaglia di Cunassa (401 a.C.), Senofonte si ritrovò alla guida dei Diecimila mercenari greci, che ricondusse a Bisanzio dopo un’avventurosa marcia attraverso l’Asia. ucciso il pretendente nella battaglia di Cunassa, guida l’esercito mercenario greco attraverso l’Anatolia verso la patria (401-399 a.C.).
Avvicinatosi al re spartano Agesilao, Senofonte si ritrovò probabilmente a combattere ai suoi ordini contro Atene, la sua vecchia patria, nella battaglia di Coronea (394 a.C.), cosa che gli valse l’esilio dalla sua patria. Ritiratosi, allora, nel podere eleo di Scillunte, che ebbe in dono dagli Spartani in Trifilia, visse lì per circa vent’anni dedicandosi alle proprie opere, fin quando i Tebani nel 371 a.C. privarono Sparta del controllo della quasi totalità del Peloponneso (Egemonia Tebana).
A Scillunte stette con la moglie Filesia e i figli Grillo e Diodoro, ai quali però almeno parte dell’educazione fu data a Sparta, per consiglio di Agesilao. Celebre è la descrizione che Senofonte fa di questo suo ozio sereno (Anab., V, 3, 8 segg.), e celebre merita effettivamente di essere perché ha già una spiccata intonazione ellenistica. L’ attività letteraria poté, s’ intende, essere una delle occupazioni prevalenti.
La sconfitta spartana a Leuttra (371), per un significativo destino, fece perdere nello stesso tempo a Senofonte il suo podere, rioccupato con Scillunte dagli Elei, e la sua fiducia nell’avvenire di Sparta, che già la costituzione della seconda lega navale aveva scosso (testimoni la Costituzione degli Spartani e forse il libro II delle Elleniche): accentuò per converso, come vedremo, il senso di una giustizia divina a tutto vantaggio del suo moralismo e quindi anche dell’influenza di Socrate, che forse solo ora si ripresenta in tutta la sua forza.
Del resto Sparta si doveva avvicinare ad Atene; il che rendeva più facile anche una conciliazione pratica con la città natale, consacrata dal sangue di suo figlio Grillo, morto a Mantinea per Atene e per Sparta nel 362 e in qualche momento giuridicamente confermata con la revoca del decreto di esilio.
Probabilmente Senofonte non fece mai ritorno in patria; si trasferì prima a Lepreo, poi a Corinto. Dopo la battaglia decisiva di Sparta e Atene contro Tebe (battaglia di Mantinea, 362 a.C.) Senofonte visse ancora alcuni anni, spegnendosi intorno alla metà del secolo a Corinto.
Senofonte discepolo di Socrate
Di Senofonte come discepolo di Socrate non sappiamo molto: l’unico momento in cui vediamo comparire l’immagine del maestro nella vita pratica è in qualche misura ambiguo e contornato da una certa aura mitica, perché raccontato dallo stesso Senofonte.
Invitato dal suo antico amico Prosseno di Tebe a prendere parte alla spedizione che Ciro il Giovane stava organizzando contro il fratello Artaserse II re di Persia (401 a. C.), Senofonte chiese consiglio a Socrate; questi saggiamente lo rinviò all‘oracolo di Delfi, ma Senofonte non seguì il maestro alla lettera; interrogò, cioè, l’oracolo non per sapere se avrebbe fatto bene ad accettare l’invito, bensì a quale dio sacrificando avrebbe compiuto meglio il viaggio.
Socrate dovette comprendere che con ciò Senofonte aveva già preso la sua decisione, e lo esortò allora in un secondo momento a partire. La singolare importanza dell’episodio sta nel farci appunto intuire contemporaneamente in qualche modo la fedeltà e devozione di Senofonte nei confronti di Socrate, e un consapevole distacco di attitudini e di aspirazioni proprie di Senofonte sin dalla sua giovinezza.
A Socrate, legato fino alla morte alla propria città – e uscito da essa solo in casi eccezionali-, si contrappone l’errante Senofonte: simbolo, negli stessi suoi limiti, dell’individualismo del sec. IV, che Socrate non era stato l’ultimo a provocare, pur non essendone apparentemente toccato.
Il suo allontanamento da Atene come conseguenza dei suoi sentimenti oligarchici
Ma che Senofonte fosse per nascita e educazione incline all’oligarchia sembra ovvio.
Inoltre, appunto nel sec. IV l’oligarchia scoccia spesso nell’individualismo, staccando l’individuo dalla sua città per catapultarlo alla conquista di una sua posizione personale tra grecità e mondo; in un epoca in cui l’egemonia spartana dopo aver dato segni vulnerabilità, era crollata, e la democrazia di Atene, alla ricerca dell’Impero, da canto suo, aveva perduto l’appoggio del demos.
Senofonte ci appare dai suoi testi un uomo attaccato alle tradizioni religiose e morali, con uno spirito di oculata amministrazione in quel che concerne la vita pratica. Nuovo è solo il riferimento costante che tutta questa tradizione assume non più alla vita della polis, ma alla vita singola dell’individuo.
È perciò anche caratteristico il valore che acquista in lui la famiglia, di fronte allo scadimento del valore dello stato: più tardi egli si preoccuperà molto dell’economia familiare e descriverà la propria religiosità come conchiusa nel cerchio della famiglia. Famosi sono i passaggi dell’Economico (VII, 16-17; 32- 38) dove Iscomaco paragona il ruolo della moglie nella casa a quello dell’ape regina nell’alveare.
Lo stesso deve dirsi del valore che Senofonte dimostra uscendo di patria: valore di soldato. Questa tipica virtù della polis (e la polis stessa era, si può dire, nata insieme con gli ordinamenti oplitici) perde ogni contatto con la città, diventa sagacia, saggezza e abilità personale. Ciò Senofonte dimostra nella pratica all’estremo.
Opere filosofiche, opuscoli politici e dissertazioni tecnico didattiche
Scrive opere di diversa natura: dalle memorie socratiche, opere filosofiche (i Memorabili, un’Apologia di Socrate e due dialoghi, il Simposio e l’Economico), ai testi encomiastici, opuscoli politici (Agesilao, Ierone, Ciropedia), alle dissertazioni militari (Ipparchico) e operette tecnico didattiche sull’equitazione e la caccia (Equitazione, Cinegetico); scrisse anche uno scritto di economia (Póroi, ossia “Le entrate dello Stato”).
L’Agesilao, una biografia-apologia dell’amico re di Sparta, scritto poco dopo la sua morte, cioè circa il 360 a. C.: il criterio di giudizio è dato naturalmente dal carattere morale di Agesilao.
Tra il tecnico-militare e il pedagogico stanno i due scritti sulla cavalleria, l’uno destinato ai comandanti, l’Ipparchico e l’altro al comune cavaliere, Intorno l’ippica composti certo poco prima della battaglia di Mantinea. Senofonte segue l’indirizzo militare del tempo, che tendeva a un rafforzamento delle cavallerie di contro alle fanterie, ma ci mette il suo orgoglio per l’arma aristocratica.
Lo stesso spirito aristocratico è nel Cinegetico, un elogio della caccia. Ma più importa che nell’Ipparchico, l’ippica e nel Cinegetico, la caccia siano considerate ammaestramento non solo di virtù, ma di pietà verso gli dei. I tre scritti si possono perciò ritenere specificazione degli ideali etici e religiosi di Senofonte in quei campi che erano più alieni dal pensiero socratico.
Senofonte scisse anche La Costituzione di Sparta: un’esaltazione della costituzione di Licurgo, ma nel penultimo capitolo afferma che gli Spartani non le danno più valore e obbedienza, e perciò i Greci si stanno stringendo contro di loro in una nuova lega: evidente allusione al ricostituirsi della lega navale ateniese nel 378 a.C.
Una produzione davvero estesa e poliedrica che va oltre la sola ricerca storiografica, prova di una pluralità di interessi supportata da uno stile sempre chiaro, asciutto, ma al tempo stesso vivace. A differenza di Erodoto e Tucidide, Senofonte non è autore di un’unica opera; è perciò carattere complesso e sfaccettato da cogliere nel suo insieme. Inoltre, la sua produzione storiografica è particolarmente legata alle vicende biografiche che lo portarono a errare e raccontare.
L’anabasi
È molto probabile che la prima opera di Senofonte sia l’Anabasi, pubblicata sotto lo pseudonimo di Temistogene. Essa doveva probabilmente rettificare la narrazione non favorevole a Senofonte fornita da un certo Sofeneto in un racconto analogo : la ragione dello pseudonimo stava, dunque, nell’intenzione di nascondere lo scopo personale dell’autore.
Senofonte qui voleva raccontare l’esito infelice della spedizione contro Artaserse II di Persia cui parteciparono contingenti di mercenari greci. L’Anabasi è appunto un diario, un libro di memorie, in cui la parte dedicata più propriamente all’anabasi, cioè alla “salita”, alla spedizione di Ciro il Giovane, è contenuta tutta nel primo libro, mentre gli altri sei sono di “katabasi“, di ritorno verso il mare e descrivono la marcia dei Diecimila mercenari greci.
La sconfitta a Cunassa del 401 a.C. infatti dà inizio al vero cuore della narrazione: la marcia attraverso l’Anatolia fino alle coste del Mar Nero e al rientro in Grecia di un’armata sbandata, senza risorse, assediata dal freddo e dalla fame, priva di capi, in un territorio ostile.
È una sorta di diario personale, nel quale Momigliano vedeva la nascita della memorialistica di carattere apologetico e militare (si pensi ai Commentarii di Cesare per un confronto).
Senofonte ha modo di illustrare le sue capacità di comando, l’attenzione psicologica verso i soldati, la gestione dei complessi rapporti diplomatici e si pone al centro della scena, parlando di sé in terza persona; sa creare con le parole intorno a sé un’avvincente epopea collettiva – ne é un esempio la celebre pagina in cui i Greci vedendo il mare esultano al grido di “Thalatta thalatta”.
(…) Il quinto giorno pervennero poi a un monte di nome Teche. Non appena i primi giunsero in vetta e videro il mare, levarono alte grida. Nell’udirle, Senofonte e i suoi della retroguardia pensarono che la testa dell’esercito fosse attaccata da altri nemici: (…) Poiché le grida si facevano più intense e più vicine, i soldati, che man mano giungevano, correvano verso i compagni che continuavano a urlare, e tanto più acuti salivano i clamori quanto più il numero s’ingrossava, per cui Senofonte pensò che si trattasse di qualcosa di veramente grave. Allora scese da cavallo, prese con sé Licio e i cavalieri e corse a prestar soccorso, ma ben presto sentirono i soldati gridare: «Mare, mare». La voce rimbalzava di bocca in bocca. Allora anche tutta la retroguardia si mise a correre, mentre pure le bestie da soma e i cavalli vennero spinti al galoppo. Quando furono tutti sulla cima, cominciarono ad abbracciarsi, strateghi e locaghi, tra le lacrime.
(Anabasi 4, 7, 21-25)
Ma forse la nota più suggestiva dell’opera risiede nell’incontro con popolazioni sconosciute, esotiche, che popolano l’interno dell’Asia Minore, lontane dai luoghi delle frequentazioni greche. Senofonte le accosta con sguardo curioso, a volte addirittura divertito, descrivendone usi e tradizioni e insieme testimoniando la difficoltà nell’interazione reciproca tra mondi tanto distanti.
Lo scritto è unitario dal punto dì vista del contenuto come dello stile, vivo, con ricchezza di ritratti – che per la prima volta forse entrano in un’opera storiografica – con uno sforzo di realizzare le situazioni materiali e morali dei partecipi senza desiderio di alcun riferimento a più vasti ordini di fatti: Senofonte reagisce ai gorgiani e cerca di creare una storia con semplicità d’idee e mezzi formali.
Sostenuta nei momenti migliori da una qualche epicità (la scena famosa dei Greci che raggiungono il mare) o idillicità (gli ozî dell’autore stesso in Scillunte) è poi nei momenti peggiori di un infantilismo accentuato:anticipazione prosastica dell’ellenismo.
Le Elleniche: opera storica più ambiziosa
Opera storicamente più ambiziosa sono le Elleniche, che narrano in sette libri la storia del mondo greco tra il 411 e il 362 a.C. La data d’inizio scelta per la narrazione parla già della volontà di ricollegarsi direttamente al suo predecessore in materia, Tucidide; una scelta resa evidente dall’incipit dell’opera: “Dopo questi fatti”; inizio altrimenti privo di significato, soprattutto se confrontato con la pregnanza dei proemi di Erodoto e Tucidide.
Una teoria classica elaborata da Luciano Canfora, che risale al Niebuhr, vede nei primi due libri la parte più antica dell’opera, a cui più tardi sarebbero stati aggiunti i libri successivi: fa partire dunque Senofonte come storico dipendente da Tucidide.
L’influsso di Tucidide è, in realtà, superficiale e rispettoso, e sarebbe erroneo derivare la personalità storiografica (differente per stile, metodo e epoca) di Senofonte da quella del grande predecessore: al tentativo di comprensione delle cause e delle forze agenti nella storia greca si sostituisce una cronaca partigiana (mai volutamente malfida) e sostenuta dalle buone qualità del tecnico militare dello stesso Senofonte.
Nelle Elleniche sono facilmente distinguibili tre parti: la prima, di ispirazione tucididea, se così vogliamo definirla, costituita dai primi due libri, che, riconnettendosi alla storia di Tucidide, parte dagli avvenimenti del 411 a. C. e giunge fino alla restaurazione della democrazia in Atene.
La seconda, invece, costituita dai libri III-V,1, 35 all’incirca (fino alla pace di Antalcida), che ha un tono assai affine all’Anabasi per vivacità e personalità di stile e per il tono memorialistico, diaristico.
La terza degli ultimi tre libri ripercorre l’egemonia spartana e la successiva egemonia tebana (371-362 a.C.), conclusasi a Mantinea nel 362 a.C., che, si colloca stilisticamente in mezzo fra le altre due parti, se ne distingue però per un’elaborazione meno accurata e per restringersi da una storia generale della Grecia a una storia del Peloponneso con interpretazioni e lacune (per es., è dimenticata la fondazione di Messene e Megalopoli) suggerite da una tenerezza per Sparta, mai celata dall’autore.
Senofonte lascia trapelare le sue simpatie per Sparta e il suo re Agesilao, il fastidio per la democrazia ateniese nel drammatico racconto del processo ai generali delle Arginuse (406 a.C.), l’ostilità per Tebe e il suo leader Epaminonda.
Nelle parti che sembrano più tarde delle Elleniche si avverte traccia di un riavvicinamento ad Atene, che è conseguenza, probabilmente, della trasformata condizione spirituale e materiale di Senofonte.
“Musa dell’Attica”
Gli antichi definirono Senofonte «musa dell’Attica» (Attikè Moùsa), perché la lingua da lui adoperata venne da sempre additata come esempio di buona parlata dell’Atene del V-IV sec. Ora, non c’è dubbio che la lingua senofontea sia espressione della civiltà del suo popolo improntata come è a un «sano senso della semplicità e della schiettezza» (Norden); ma non va dimenticato che i lunghi soggiorni di Senofonte fuori Atene condizionarono a livello più o meno inconscio la sua parlata, spingendolo spesso a fare uso di forme non in uso nella sua patria.
È stato scritto che Senofonte è autore «dal respiro corto e dalla frase allentata» (Fournier) a indicare la predilezione di questo autore per il fraseggio semplice e chiaro, decisamente diverso da quello in uso nell’opera di Tucidide. Senofonte fa, effettivamente, uso assai accorto della subordinazione; e la sua frase non è mai cerebrale e complessa, anche se questo può indubbiamente ingenerare a volte un senso di monotonia.
La sua nozione di storia
La nozione di egemonia è centrale; l’analisi in successione di quella ateniese, spartana e tebana rappresenta un tema unitario e a lui contemporaneo.
Se Senofonte si attiene nel complesso alle “leggi” di Tucidide sulla storia, è pronto tuttavia a tradirle: rispetto al criterio “assiologico”, ad esempio, si sofferma in una lunga digressione sulla piccola città di Fliunte e introduce eventi la cui rilevanza non pare sempre ovvia; oppure sparge aneddoti e indugia su descrizioni inedite (l’incontro tra Agesilao e Farnabazo su tutti, IV I, 1-15).
Anche l’epilogo pare caratteristico di Senofonte: l’ultima battaglia, quella di Mantinea, é una battaglia che non vede vincitori, lascia anzi confusione e disordine nel mondo greco. La sua è una storia che non si chiude, forse perché cosi l’aveva percepita, in un clima che aveva perso i suoi riferimenti e gli equilibri di potere.
Senofonte chiude le Elleniche non nascondendo la sua personale aspirazione ad entrare nella catena storiografica che lo aveva saldato a Erodoto e Tucidide, lo storico chiosa, infatti: “forse altri si occuperanno degli avvenimenti successivi”.
La fortuna
Senofonte è un uomo del suo tempo, che non è il tempo di Tucidide e dello splendore di Atene, ma di una Atene che aveva smesso di filosofare e di essere democratica, per cercare di ottenere una egemonia, un impero che non avrebbe mai potuto gestire.
La fortuna di Senofonte ha la sua chiara origine in tutti quei germi di civiltà ellenistica, e quindi ellenistico-romana, che l’opera sua conteneva: e anche, naturalmente, nell’accessibilità che la chiarezza del suo stile e del suo pensiero permetteva. Nell’età ellenistica, a cominciare dagli stoici, Senofonte è soprattutto ammirato come filosofo (Diogene Laerzio lo definirà filosofo): Cicerone ne tradurrà l’Economico.
Dal secolo I, l’atticismo lo fa ammirare anche come esempio di stile, sebbene l’atticismo di Senofonte non fosse puro, e talvolta, anzi, egli già preludesse alla koinè linguistica ellenistica.
Risorgerà poi la sua fama di storico (Arriano lo imita), e perdurerà in età bizantina, nell’attenuarsi di quella come filosofo. Portato in Occidente e tradotto in latino, l’umanesimo ne apprezzerà di nuovo prevalentemente gli aspetti filosofici; la fine del Seicento e il Settecento nella sua chiarezza spirituale e nella sua religiosità moraleggiante daranno modo ai valori capaci di Senofonte – ora come storico o come filosofo- di rifarsi.
Maria Francesca Cadeddu