Illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità imputabile a egli stesso
Immanuel Kant
Prima non era che l’oscurità, poi il lume ha lacerato la notte per esibirne l’essenza più autentica: nulla avrebbe impedito quel mattino eterno. Immanuel Kant, tra le pagine di un celebre articolo ospitato sul numero datato dicembre 1784 della rivista Berlinische Monatsschrifft descrive con l’indiscreta precisione cui i filosofi sono educati la natura di quell’Aufklärung (Illuminismo) che fendeva l’oscurità per tutto l’Occidente e che presto avrebbe scintillato sulla lama d’una ghigliottina accecando di virtù Maximilien de Robespierre.
Illuminismo e modernità
Cos’è Illuminismo, s’interroga Kant, meditabondo? Soggiacente un secondo interrogativo, certo più sibillino del primo ben subodorato da Michel Foucault in un testo incluso nella raccolta anglosassone a cura di Paul Rabinow The Foucault Reader: «che cos’è questo attuale?». Kant saccheggia all’attuale il carattere d’ineffabile cui lo costringe la prossimità restituendone dignità filosofica. Quell’età moderna non risultava che il compimento più pieno della natura dell’uomo, la sua uscita da uno «stato di minorità imputabile a egli stesso».
Abbandonare sé stessi senza abbandonarsi a sé stessi. Ecco, il Secolo dei Lumi affiora negli abiti di un processo che confligga con l’indolenza di individui che si muovono «con il girello». Come, potrebbe domandare il lettore erudito, l’età moderna, cui pur Kant afferisce, non aveva riscoperto lo splendore del soggetto a differenza dell’identità oggettiva?.
Basta rammemorare il motteggio per mezzo di cui è compendiato l’intero travaglio teorico a firma di Renè Descartes per cui Cogito, ergo sum. Alla relazione di causalità tra pensiero ed essenza per cui il soggetto di pensiero è pure soggetto della propria esistenza, sottende quel gran moloch che ha nome di Io.
Nature minori
Infelice, l’approdo cui l’individuo è stato relegato, per quanto preda delle passioni e afflati immaginifici, come pure annota Kant in un passo dell’Antropologia dal punto di vista pragmatico narrando dell’animo umano. «Minorità», chiarisce Kant ai lettori della rivista, «è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro» la cui colpevolezza è imputabile a una «mancanza di decisione». Seconda natura che ha nottetempo assassinato la prima nel sonno dell’indolenza, di fatto detronizzandola. L’antidoto? Vigorose dosi di Sapere aude da somministrare all’individuo ogni minuto senza neppure consigliargli il digiuno. Abbi il coraggio di sapere, recita il motteggio kantiano; di fregiarti «della tua propria intelligenza», l’anelito che per natura si possiede e che, minorenni, si relega all’oblio.
Percorrendo tale prospettiva teorica Kant può distinguere un uso pubblico della ragione, il quale «deve essere libero in ogni tempo» e che sublimi il Secolo dei Lumi, da un uso privato della ragione, ai quali sono tollerati freni e confinamenti. Subiscono, pubblico e privato, una bizzarra confusione, per cui il primo diviene l’uso che un privato cittadino compie della propria ragione, «in quanto studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori», mentre il secondo si conforma nell’esercizio di «un certo ufficio o funzione civile». L’uso pubblico della ragione, così come Kant l’intende, tratteggia il volto professorale di chi al pari di lui esibiva al pubblico le proprie lezioni, pubblicava sistemi di filosofia, rispondeva alle obiezioni dei colleghi, preparava articoli per Berlinische Monatsschrifft; il privato, invece, non lambiva affatto il calore dell’intimità, diceva invece della pubblicità d’una carica perimetrata all’ambito delle proprie funzioni.
Una fiaccola nell’oscurità
L’uomo, afferma Kant, è coinvolto dentro l’interesse della vita politica quando è «pezzo d’una macchina»: donde una ragione che non si compia che in collettività. A chi invita all’obbedienza senza ragione, Kant oppone l’obbedienza del palpito politico: allora non si obbedisce per obbedire, né si ragiona per ragionare. Come rileva Michel Foucault in una lezione al Collège de France, rielaborazione dell’articolo citato «vi è Aufklärung allorché vi è sovrapposizione fra l’uso universale, l’uso libero e l’uso pubblico della ragione». Oltre la vita civile: una coscienza morale universale.
Non tuttavia un invito alla sedizione, quello kantiano, bensì l’appello alla ragione dell’obbedienza. Paradossale, certo, eppure tra gli ingranaggi di un lavorio che trasfiguri l’uomo come «più che una macchina» nel fulgore ritrovato della propria dignità. La natura umana allora si illumina: nel buio, si brancola cercando un appiglio a tentoni, ci si aggrappa al primo girello e tanto si sta comodi che non lo si abbandona, presumibilmente, sino alla morte. Tale, la risposta alla domanda su cosa sia Illuminismo: non il cero che costringa alla rammemorazione di una natura deietta, bensì la fiaccola che fenda l’oscurità verso percorsi inediti. L’uomo è più di quel che crede di essere.
Antonio Iannone
Bibliografia:
I. Kant – M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo, a c. di P. dalla Vigna – L. Taddio, Mimesis, Milano 2012.