Il morbo di Alzheimer prende il nome dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer, che individuò per primo la malattia nel 1906. Il primo caso documentato fu Augusta D., che presentava forte amnesia e sbalzi d’umore che andavano dall’aggressività alla profonda depressione.
Il dottore si rese subito conto del valore scientifico della misteriosa patologia del soggetto, e ne attese la morte nel 1906 per sezionarne il cervello. Alzheimer si accorse che i tessuti cerebrali della donna erano fortemente atrofizzati da alterazioni arteriosclerotiche.
Egli comunicò l’esito della sua scoperta all’Assemblea degli psichiatri tedeschi a Tubinga, ma non fu creduto e dovette continuare autonomamente le ricerche, con il suo collaboratore italiano Gaetano Perusini.
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Sintomi dell’Alzheimer
Il morbo si presenta con le stesse caratteristiche descritte da Alzheimer e Perusini, ovvero afasia, disorientamento, cambiamenti repentini d’umore, depressione e problemi nel comportamento.
Non sono note con esattezza le cause che generano la malattia, anche se la degenerazione delle cellule cerebrali è strettamente associata alla formazione di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari (filamenti nel citoplasma dei neuroni).
Il morbo colpisce prevalentemente persone oltre i sessantacinque anni, anche se può manifestare i primi sintomi molto prima. L’aspettativa di vita dopo la diagnosi va dai tre ai nove anni.
Nuove prospettive
Non si possono dare cause specifiche sull’evolversi della malattia anche se di recente sono stati fatti alcuni passi avanti.
La prima scoperta è dell’aprile 2017 al Campus Bio-medico di Roma, dove è stato individuato il “luogo” del cervello dove si originerebbe la malattia. Il team del professor Marcello D’Amelio, comunica di aver scoperto un nesso tra la morte dei neuroni dell’area tegmentale ventrale e la cancellazione dei ricordi.
Il deperimento di quest’area, infatti, comporta la riduzione di dopamina, neurotrasmettitore essenziale per la formazione di nuove sinapsi, e l’atrofia dell’ippocampo, sede della memoria.
All’inizio del 2018 sono state fatte altre due scoperte importanti. A fine gennaio è stata annunciata la scoperta della proteina Apache. Essa aiuta i neuroni a crescere e a svilupparsi, favorendo la formazione di nuove connessioni.
La scoperta è frutto della collaborazione tra l’Istituto Italiano di Tecnologia, l’Università di Genova e il San Raffaele di Milano. A guida del team di ricerca Fabio Benfenati dell’IIT, Silvia Giovedì dell’ateneo ligure, e Flavia Valtorta del San Raffaele.
Benfenati ha dichiarato che “non conosciamo esattamente il meccanismo di funzionamento della proteina, ma è prodotta da un gene che non conoscevamo. Questa proteina aiuta i neuroni a crescere, e a stabilire sinapsi, se la proteina viene silenziata i neuroni stanno male e tendono a morire“.
A Benfenati fa eco Silvia Giovedì: “La proteina potrebbe essere implicata nei meccanismi di riparazione dei neuroni, e un suo malfunzionamento potrebbe essere alla base di molte malattie neurodegenerative”.
Una scoperta molto simile è stata annunciata il 16 febbraio. Uno studio dell’Istituto Lerner di Cleveland, guidato da Riquiang Yan, ha dimostrato che nei topi l’Alzheimer può regredire eliminando l’enzima responsabile dell’accumulo di placche amiloidi nel cervello. L’enzima è chiamato Bace1.
Questa scoperta, seppur promettente, presenta alcune criticità, come sostenuto da Marcello D’Amelio. A detta del professore si evidenzia per la prima volta una regressione delle placche, ma questo potrebbe avere effetti clinici limitati.
Andrea Fuso della Sapienza, inoltre, sostiene che resta da verificare l’applicabilità sull’uomo, non sappiamo infatti se l’inattivazione a lungo termine di Bace1 potrà creare problemi.
Prevenzione dell’Alzheimer
Restano tanti gli interrogativi riguardo la malattia di Alzheimer, e queste ricerche ci fanno capire che probabilmente esistono molte cause, ancora ignote, che generano la malattia.
Il morbo resta dunque ancora sconosciuto. Ad oggi ne soffrono oltre 47 milioni di persone al mondo, di cui 600 mila in Italia. Numero che potrà aumentare dell’85% entro il 2030, a causa dell’invecchiamento della popolazione nei paesi più industrializzati, dove c’è una maggiore incidenza della malattia.
L’aspetto non è da sottovalutare. In futuro un alto numero di pazienti bisognosi d’assistenza potrà gravare sui costi economici anche dei sistemi sanitari più ricchi, con necessario implemento della spesa pubblica.
A ciò si aggiunge anche che in molti di questi paesi, la ricerca sull’Alzheimer è scarsamente finanziata rispetto ad altre patologie. Ad esempio in Inghilterra solo un dodicesimo dei fondi pubblici è destinato all’Alzheimer.
Si rende necessaria una forte campagna di sensibilizzazione alla prevenzione, come si assiste da alcuni anni, quali uno stile di vita più sano e una maggior attività intellettiva e fisica anche nei più anziani e il mantenimento costante di relazioni sociali.
Simone Micillo