Tra le sue ormai numerose produzioni, Netflix ha pubblicato il mese scorso Altered Carbon, una serie dai presupposti intriganti e ambiziosi. Incrociando poliziesco e cyberpunk, con incursioni in altri generi, seguiamo le vicende del cinico Takeshi Kovacs tra passato e presente. Ma la resa complessiva delude per vari motivi.
Altered Carbon: pile e custodie
Il punto di forza è certamente l’ambientazione. Altered Carbon si snoda in un’inflazionata distopia dai toni cupi, nella sua oscura Bay City, illuminata a neon con una fotografia dai toni bluastri. Tuttavia spicca la novità (relativa, già esplorata da grandi nomi della fantascienza). Da secoli è stato inventato un modo per scaricare la coscienza su una cosiddetta pila in modo da poterla trasferire da un corpo all’altro. Quest’ultimo, di conseguenza, è degradato al rango di mera “custodia”, con prestazioni selezionabili a piacimento, ovviamente in base allo spessore del proprio portafoglio. La morte ormai è divisa tra fittizia, relativa alla sola custodia, e reale, dipendente dalla distruzione della pila.
Takeshi Kovacs si muove in questo mondo come un relitto di altri tempi, ex-membro dei ribelli contrari alla virtuale immortalità offerta dalle pile. Ma “scongelato” dopo 250 anni dalla sua “ultima” morte, si trova in un mondo dove la sua fazione ha perso la guerra secoli fa. La storia è stata ormai, come si dice, scritta dai vincitori. Si tratta dei “Mat” (abbreviazione di Matusalemme), individui dalle ricchezze sconfinate che possono vivere virtualmente in eterno reincarnandosi in propri cloni. Basti pensare ai miliardari di oggi, che non fanno mistero delle loro velleità fantascientifiche, per capire la fonte di ispirazione.
Niente di nuovo
Laurens Bancroft, Mat trecentosessantenne, assume Kovacs per indagare sul caso del proprio omicidio. Egli è infatti sopravvissuto alla “vera morte” grazie alle proprie risorse economiche. L’ex ribelle si immergerà dunque in una società divisa tra beati che vivono al di sopra delle nuvole e dannati che strisciano in città caotiche e miserabili.
La galleria di personaggi di Altered Carbon è tutt’altro che memorabile. I Mat sono un pallido richiamo di una borghesia primonovecentesca smarrita nell’abisso della noia e dedita ai passatempi più assurdi e violenti pur di ammazzare il tempo (vedi episodio 3). I poliziotti Ortega e Abboud ripetono il classico cliché della giovane impulsiva e del mentore saggio e protettivo (c’è bisogno di dire che fine farà il secondo?). Altri personaggi allungano la lista, come l’hotel/IA Poe, il frustrato Elliot e i vari spettri del passato di Kovacs. Egli stesso è una figura poco originale, ennesimo cinico sprezzante che sotto la scorza è un uomo dal cuore d’oro indurito dalla sua storia personale. Né riesce a bilanciare la situazione l’antagonista, incapace, per motivazioni e mancato spessore, di reggere l’intero tessuto della trama.
Un’occasione mancata
Eppure i presupposti per un prodotto valido c’erano. Oltre alla premessa narrativa, i primi episodi offrono scene d’impatto. Il risveglio di Kovacs è traumatico come una vera e propria nascita. L’arrivo nella dimora di Bancroft suggerisce l’abissale distanza che i Mat hanno posto tra se stessi e gli altri. Le interpretazioni sono abbastanza convincenti (il doppiaggio italiano un po’ meno) e regia e musica ben accompagnano la narrazione. Non meno valida la fotografia che si muove agevolmente tra i toni bui della città e quelli idilliaci e puliti dei palazzi nobiliari, senza disdegnare variazioni su tema (le scene “gialle” dell’arenodromo).
Tuttavia Altered Carbon diluisce, anzi ignora i suoi punti di forza, si perde in una poltiglia di generi e citazioni che gli impediscono di trovare una dimensione propria. Qualsiasi spunto di riflessione è scalzato dall’ossessione per l’azione, il gore e l’intrigo (accadeva già nel ben più riuscito Westworld). Le suggestioni cyberpunk e poliziesche/noir si limitano a restare tali, cozzando con flashback di una guerra dai toni epici. Sbuca fuori la malcelata identità di una scrittura più affine agli action movie senza troppe pretese. Qualsiasi incursione in territori inesplorati e rielaborazioni originali è dunque castrata.
L’atmosfera è sempre incostante, stemperando la distopia tanto con le ironie sagaci di Kovacs quanto con dolci ricordi e scene d’amore. La narrazione, seppur scada in espedienti a volte imbarazzanti, cerca di tenere duro. Ma i colpi di scena a metà strada non risollevano davvero l’interesse per la trama, che va anzi scemando.
Aggiungiamo la retorica da manuale che la voce narrante sciorina episodio per episodio. La presenza di un personaggio come l’IA Poe, veicolo di una superficiale dialettica emotiva umano/macchina. E una prepotente presenza di violenza e sesso col solo scopo di fare pubblico (il nudo più valorizzato è, ovviamente, femminile. Smetteremo mai di essere così maschilisti?). Se ne ricava la semplice conclusione che Altered Carbon si rivolge ad un pubblico assai poco esigente e perlopiù adolescenziale.
Non che ciò sia proibito, ma un qualsiasi spettatore anche non navigato, che l’anno scorso ha visto Blade Runner: 2049 o conosce Ghost in the Shell, avrà ragione di restare deluso. Non penso sia superficiale affermare che gran parte dell’interesse di una serie tv consista in una trama e in una scrittura ben fatte e/o originali. Il regista capace di stregare affidandosi principalmente all’aspetto visivo è cosa rara, soprattutto sul piccolo schermo. Anche nomi del calibro di Vince Gilligan, con un Better Call Saul che più avanza e più scricchiola, dimostrano che un sostrato narrativo solido è un presupposto inaggirabile in una narrazione seriale.
Purtroppo è ciò che manca ad Altered Carbon. Lasciamo ai lettori la decisione di aspettare o meno la prossima stagione.
Giovanni Di Rienzo