Christopher Isherwood è stato un importante romanziere inglese del Novecento. Contemporaneo dei modernisti, dalla cui sperimentazione si discosta profondamente, è stato intimo amico del poeta Wystan Hugh Auden. Entrambi omosessuali, negli anni che precedono l’ascesa di Hitler si trasferiscono a Berlino, capitale della tollerante Repubblica di Weimar. Nel 1939, anno dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, scappano invece negli Stati Uniti d’America dove risiederanno per il resto della loro vita. Gli scritti berlinesi di Isherwood raccontano la sua esperienza nella capitale tedesca, che si stava avviando verso la più grande tragedia della sua storia. Goodbye to Berlin (Addio a Berlino) è composto da sei sezioni diverse che raccontano vicende vissute personalmente dal narratore, che adopera la forma del diario e dell’autobiografia romanzata per rappresentare i personaggi incontrati durante il lungo soggiorno nella capitale della Repubblica di Weimar.
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La tecnica narrativa
La questione dell’autobiografia è fondamentale per la comprensione della produzione romanzesca, spiccatamente autobiografica appunto, di Christopher Isherwood. Lo scrittore non esita a usare il suo nome, a raccontare le sue esperienze e i suoi incontri. Ma non bisogna assolutamente pensare che la sua narrazione sia intima, interiore o personale: la sua presenza nel racconto si “limita” al registrare quanto accade al pari dell’occhio freddo di una macchina fotografica. C’è un passaggio nel primo capitolo di Goodbye to Berlin che è divenuto emblematico ed esemplificativo della tecnica narrativa dello scrittore inglese:
I am a camera with its shutter open, quite passive, recording, not thinking. Recording the man shaving at the window opposite and the woman in the kimono washing her hair. Some day, all this will have to be developed, carefully printed, fixed[1].
Questo piccolo manifesto è stato a lungo dibattuto dalla critica, che ha avuto molte difficoltà a interpretare la chiara vena autobiografica dei romanzi dello scrittore. In Goodbye to Berlin il tono intimo della confessione diaristica si unisce al distacco della cronaca garantito dal suo sguardo fotografico.
Cosa “fotografa” Christopher Isherwood?
Da un lato la decadenza di un’epoca – un’epoca breve quale era stata quella della Repubblica di Weimar. Dall’altro il procedere verso la catastrofe – quella dell’ascesa di Hitler e della fondazione del Terzo Reich. Lo scrittore vive infatti a Berlino tra il 1929 e il 1933: anni fondamentali all’affermazione dell’ideologia nazista in un momento di sconforto e di delusione per la popolazione tedesca che ancora pagava le durezze della crisi economica del 1922. Le sei sezioni dell’opera corrispondono proprio a sei ritratti di personaggi che riflettono la crisi profonda del paese.
I personaggi di Berlino
Troviamo personaggi abilmente tratteggiati che incarnano alla perfezione la decadenza in cui versava la nazione tedesca. La padrona di casa dell’autore, indiscretamente interessata a pettegolare sulle vite “trasgressive” dei suoi affittuari. Sally Bowles, spregiudicata ragazza inglese venuta a Berlino per trovare successo nel mondo dello spettacolo. L’omosessuale nevrotico Peter Wilkinson. Il giovane approfittatore Otto Novak e la sua famiglia sull’orlo costante della crisi. I ricchi Landauer, ebrei tra cui spiccano la bigotta Natalia e l’anomalo Bernhard. Sono tutti personaggi decadenti, infelici, instabili, incapaci di affrontare la loro problematica realtà. Si potrebbe affermare che sono il ritratto perfetto della crisi della Repubblica di Weimar, una crisi che sarebbe stata risolta solo con una soluzione estrema quale l’avvento del nazismo.
Attenzione sul personaggio e non sulla narrazione
Isherwood ricostruisce, con accenni di finzione denunciati dallo stesso, episodi di vita reale con una minuzia che non lascia spazio a troppi giudizi o considerazioni personali. Afferma Paolo Bertinetti che «Isherwood mette da parte il narratore per dare loro [ai personaggi tratteggiati, ndr] la parola; e quindi anche la responsabilità della “morale” della storia»[2]. Compaiono, infatti, molti dialoghi che a tratti danno un taglio quasi cinematografico al testo. L’attenzione completamente riservata sul personaggio denuncia anche una conquista teorica dello scrittore inglese, che qualche anno più tardi così descrive il suo metodo di narrazione:
I try to start with a superficial false impression (how you would see somebody if you met them for the first time) and then, by means of the action, gradually go deeper and deeper into this person until you have seen him or her from a whole series of different angles and so gradually a portrait in depth is developed[3].
Sintomatologia del nazismo
Seppure al di là di ogni tentativo di analisi politica, la narrazione di Christopher Isherwood è estremamente abile nel raccontare lo sviluppo dell’ideologia nazifascista nella società tedesca dei primi anni ’30. La questione è tratta in maniera obliqua, non esplicitamente: sono le situazioni della vita quotidiana e non quelle della vita politica a riflettere la deriva ideologica verso cui si avvia la Germania. Gli episodi di vita quotidiana permettono infatti a Isherwood di mostrare la sovrapposizione in atto tra la normale società e il germe del nazismo, la giustapposizione tra le retorica fascista con la chiacchiera tra amici. Siamo di fronte alla “banalità del male” che di lì a poco avrebbe determinato una tragedia indicibile.
Life is a Cabaret, old chum!
Una prima versione teatrale dell’opera fu scritta da John Van Druten nel 1951. Andato in scena a Broadway, lo spettacolo riscosse molto successo. Si intitolava I am a Camera e riprendeva più o meno fedelmente il testo dello scrittore inglese. Ancora più famoso divenne invece il musical Cabaret, che nella versione filmica vede Liza Minelli nei panni della protagonista Sally Bowles. L’opera musicale riesce a unire il racconto delle libertà e delle trasgressioni permesse dalla tolleranza della Repubblica di Weimar e la descrizione dell’ascesa del nazismo che con la sua intolleranza spazza via le libertà conquistate fino ad allora.
Salvatore Cammisa
Fonti e traduzioni
[1] Christopher Isherwood, Goodbye to Berlin, New York, New Direction Paperbooks, 2012, p. 3: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa. Registro l’uomo che si fa la barba alla finestra dirimpetto e la donna in kimono che si lava i capelli. Un giorno tutto questo andrà sviluppato, stampato con cura, fissato».
[2] Paolo Bertinetti, Il Romanzo Inglese, Bari, Editori Laterza, 2017, p. 126.
[3] Christopher Isherwood, Isherwood on Writing: The Lectures in California, Minnesota, University of Minnesota Press, 2007, p. 166: «Cerco di cominciare con un’impressione superficiale, falsa (come se vedessi qualcuno per la prima volta) e poi, col mezzo dell’azione, vado gradualmente più nel profondo di questa persona fino a vederla da una moltitudine di angoli diversi e così gradualmente il ritratto in profondità è sviluppato».