Negli anni ’50 del ‘900, negli Stati Uniti d’America, nasce un movimento artistico, poetico e letterario che prende il nome di Beat Generation. Il romanzo manifesto di essa fu un romanzo dalla storia controversa e dal successo prorompente: Sulla strada, di Jack Kerouac.
La Beat Generation
Il concetto di Beat Generation travalica, in realtà, gli spazi e i confini della definizione di movimento artistico diventando miracoloso concime su un già fertile terreno, diventando il soffio di vento che diede il decisivo cambio di rotta al modo di vivere la vita dei giovani americani. Esso fu, di fatto, ciò che avrebbe ispirato, poco meno di un ventennio dopo, il movimento del Sessantotto, l’opposizione alla guerra di Vietnam, il festival di Woodstock.
Questi eventi sensazionali avrebbero lasciato in eredità al mondo una quantità esorbitante di immagini, suggestioni e ideali che, anni prima, erano già raccolti, intrecciati e nascosti tra le pagine di Kerouac.
Il romanzo fu pubblicato nel 1957 dopo una serie incomprensibile di rifiuti – ben cinque in sei anni. Appena vide le stampe, critica e pubblico gli consacrarono un successo immediato, prorompente.
Gli irrequieti e sfacciati protagonisti della Beat Generation vivono una vita scontrosa, nel rifiuto delle norme imposte, nella sperimentazione di droghe e sessualità alternativa, nell’interesse per la religione orientale e nel conseguente netto rifiuto per il materialismo occidentale.
La definizione che ne diede lo stesso Kerouac racchiude forse in sé, in una immagine inquietante e al contempo forte e incisiva, la forza e il mistero della Beat Generation; essa viene definita, infatti, “un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”.
Ma qual è la forza di questo romanzo incompreso dagli editori che invece mandò in visibilio il pubblico e vendette 3 milioni di copie?
Sulla Strada: il diario di Jack Kerouac
Lasciamo stare la trama, che racconta il viaggio di Sal, protagonista e narratore, e del suo amico Dean lungo tutto il territorio americano in auto, autobus o autostop; lasciamo stare gli incontri sorprendenti, gli addii e i ritorni, il pentimento senza redenzione, l’amore per l’essere nomadi e l’incapacità di accettarlo; lasciamo stare New York, San Francisco, Denver, la voglia di tornare a casa, la voglia di tornare in strada, l’irrequietezza e la droga, il nuovo e l’eccitante, la tristezza e l’euforia.
Se queste cose non bastassero, se pure volessimo per qualche assurdo motivo decidere di non cercare in loro il segreto di un lirismo amaro inarrivabile e di un conseguente successo incontrollabile, ancora troveremmo mille indizi di un capolavoro.
Il racconto è autobiografico. Realmente, per sette anni, Jack compie i viaggi che narra. Quanta verità c’è nel romanzo? Sicuramente più verità che bugie. Quello che vivi si infiltra in quello che scrivi, più vivi più scrivi, più viaggi più vivi. Ed è quindi la vita dell’America di fine anni quaranta che è narrata tra le pagine di Sulla strada, da uno che in prima persona la vide, la odiò, la amò, l’accettò e rifiutò.
Proprio in questo sta la magia del romanzo: nella maniera in cui racconta ciò che racconta.
Kerouac scrive appunti di viaggio. Sulla Strada nasce come il diario disordinato di un aspirante scrittore. Egli registra, più che scrivere, quello che vede, quello che sente, quello che prova. Fotografa il paesaggio e la natura di un’America desolata e forte. Cataloga nel suo ordine caotico da nomade incallito le frasi della gente americana, con brusca e distratta premura, osserva e riporta diligente e rabbioso l’alienazione del sottoproletariato, senza intenti rivoluzionari, ma con l’intento eterno di ogni scrittura realista: dire. Raccontare. Esporre i fatti. Senza spiegarli. Descrivendoli. Srotolando la matassa confusa di umanità con la quale si viene a contattato. Nessuna intenzionalità letteraria.
Finché nell’aprile del 1951, in tre sole settimane, con in corpo più caffè che sangue, Kerouac decide di riordinare gli appunti dei suoi viaggi. Di farne un libro. Di passare dall’ordine caotico ad un caos ordinato. Con l’unico scopo di fondo mai cambiato: raccontare la verità dell’America, l’insofferenza delle persone, la meraviglia della natura.
Solo una virgola muta nel ricordo dei suoi viaggi, e forse lui nemmeno se ne accorge: la voglia inconscia di dare un manifesto a quel movimento che, senza che nemmeno i suoi stessi partecipanti se ne rendessero conto, stava cambiando, nel bene e nel male, l’America.
Beatrice Morra