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Get Out: un successo lontano da ogni conformismo
Get Out, la prima fatica di Jordan Peele – sceneggiatore e regista al suo esordio assoluto, noto precedentemente soprattutto per le sue apparizioni in tv in veste di comico e imitatore – ha fatto centro immediatamente. Non è stato solo un successo al botteghino, ma anche di critica e riconoscimenti. Alla 90° cerimonia degli Academy Awards Peele ha ottenuto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale e Get Out ha avuto altre nomination importanti anche ai Golden Globe, oltre che altre vittorie in festival cinematografici indipendenti come il British Indipendent Film Awards. È interessante sottolineare questo aspetto per dimostrare come tale film sia riuscito a convincere sia sostenitori di cinematografia indipendente, che sostenitori di ben altri canoni cinematografici. Una scommessa vincente per Peele, che con un budget molto più esiguo rispetto ad altre pellicole, è riuscito a dare alla sua una visibilità enorme.
Non siamo in un’epoca di progresso
Il film inizia con una scena “preambolo” – molto utile per la comprensione dell’opera nella sua totalità –, nella quale Andre Hayworth, ragazzo afroamericano, si aggira per un quartiere oscuro, e del quale comprendiamo immediatamente il pericolo, a notte inoltrata. Avvicinatasi a lui una macchina bianca (quasi in contrasto ironico con l’oscurità della notte e, perché no, con il colore della pelle del ragazzo che stava camminando, a simboleggiare che il bianco non è sempre sinonimo di purezza e bontà e che l’oscurità è più una condizione interiore che esteriore) che emetteva dallo stereo la canzone “Run, Rabbit, Run” (l’avvertimento e l’invito alla fuga sono costanti per tutto il film), un individuo vestito come un cavaliere medievale esce dalla macchina, riesce a catturarlo e lo rapisce. Il perché fosse vestito così non viene mai esplicitamente chiarito, ma potrebbe indicare la mentalità chiusa di certe persone, ancorate alla loro idea di inferiorità della razza afroamericana, con un atteggiamento che potremmo definire, usando un pregiudizio storicamente ancora diffuso, “medievale”.
Ipocrisia e paternalismo: il razzismo non ha innocenti
Dopo questa scena iniziale, Get Out si concentra totalmente sulla storia di Chris Washington (Daniel Kaluuya) e Rose Armitage (Allison Williams), giovane coppia “interrazziale”, formata da un ragazzo di colore e una ragazza bianca. Chris è un fotografo (e la fotografia si rivelerà un elemento fondamentale per lo scioglimento dell’intreccio) ed è fidanzato da qualche mese con Rose, che vuole portarlo a conoscere la sua famiglia nella loro residenza di campagna in Alabama. Inizialmente sotto pressione, preoccupato di poter non piacere ai suoi genitori, Missy e Dean (interpretati rispettivamente da Catherine Keener e Bradley Whitford), per via del colore della sua pelle, ella lo rassicura dicendo che non sono razzisti e che il padre “avrebbe votato per un terzo mandato Obama, se avesse potuto”.
Comincia con questo dettaglio ironico quella che si rivela una grande critica di Peele al perbenismo e al paternalismo della sinistra progressista e liberale americana, prendendo come bersaglio classico dunque non i più accaniti oppositori di un’uguaglianza razziale, come gli inesorabili sostenitori della destra nazionalista (e negli USA con Trump v’è un esempio macroscopico), ma coloro che cercano di dimostrarsi più aperti verso la “diversità” relazionandosi in realtà all’altro sempre in rapporto alla sua razza. Stesso atteggiamento insopportabile avranno anche le varie coppie che si presenteranno nella tenuta degli Armitage per una grande riunione familiare. Interesse e curiosità morbose per le doti fisiche di Chris, per la sua struttura muscolare, per la sua etnia, più che a lui come persona in sé per sé. Più interesse per l’involucro, per l’esteriorità, per le capacità fisiche, anziché per le capacità mentali, artistiche, creative e interiori. Peele ha voluto mostrare questo razzismo più viscido e infimo da eliminare, perché si insinua bene sotto un atteggiamento democratico in realtà inesistente. Come detto dallo stesso regista in qualche intervista, l’idea del film in realtà è del 2009, durante il primo mandato di Obama, e dunque non si modella sugli ultimi eventi politico-sociali internazionali. Una dimostrazione evidente di come in tanti anni non ci siano stati veri progressi, e di come la storia, anche se in modo diverso, sia un eterno ritorno.
La fotografia come portatrice di verità ed elemento magico
Passiamo in rassegna ora l’elemento probabilmente fondamentale per la comprensione di Get Out, la fotografia. Peele, nonostante la giovane età, dimostra una grandissima attenzione ai dettagli e dissemina per l’intera durata del film una serie di elementi e situazioni che non possono essere casuali. Il fatto che Chris sia un fotografo apparentemente non è un elemento fondamentale nello sviluppo della narrazione, ma è proprio grazie alla sua “indole” da fotografo che dal ”mondo sommerso” riemerge la verità, l’originario intelletto annegato.
Chris infatti è molto stranito dai comportamenti non solo dei domestici, ma anche di Logan, unico ragazzo di colore in una scenografia da festa completamente dominata dalla “razza bianca”.
È una fotografia fatta involontariamente con il flash (la sua intenzione era quella di non farsi notare) a scatenare in Logan una reazione sconcertante, facendogli urlare ciò che dà il titolo al film: “Get Out” (“Scappa”). L’atteggiamento di Logan dopo esser stato investito dal flash della fotocamera del cellulare di Chris non è frutto di alcun problema neurologico o attacco epilettico. Il flash della fotocamera che investe la fisicità del soggetto, si rivela come unico mezzo in grado di far tornare a galla dal mondo sommerso quella parte della psiche lasciata naufragare. Entrano dunque in gioco i due classici poli opposti: verità e finzione. La finzione è Logan prima di essere investito dalla luce (intrappolato nelle ”tenebre”), la verità è Logan dopo essere stato colpito dalla luce. La verità è sempre coincidenza tra anima e corpo. La luce è verità, le tenebre finzione.
La fotocamera diviene, citando, tra tutti, gli studi di Propp ne “La morfologia della fiaba” un oggetto fantastico, determinante per cambiare gli eventi. In effetti in questo Peele sembra rifarsi chiaramente allo schema fiabesco, con la presenza dell’elemento magico necessario all’Eroe per risolvere – o provare a comprendere – le difficoltà e stranezze e affrontare l’Antagonista. La fotografia, da sempre pregna di significati antropologici, assume il ruolo di elemento in grado di ”resuscitare” le anime.
Il pianto e il riso indizi di umanità e lucidità
Altro momento topico di Get Out è il confronto tra Georgina e Chris. Durante la conversazione tra i due prevale un irreale e agghiacciante momento di silenzio, che va prolungandosi. Il silenzio si rompe con un progressivo e straziante accenno di pianto di Georgina, quasi isterico, violentemente rotto dalla trasformazione del pianto in una risata, che si traduce a sua volta in una serie di ”no” pronunciati – con un tentativo di recupero della tranquillità quasi istantaneo – velocemente dalla domestica. Ma perché questa reazione insensata e disturbante? È una semplice scelta di Peele per creare inquietudine in Chris e negli spettatori, e dare un ulteriore indizio di squilibrio nelle persone che si aggirano intorno alla casa? Prendendo in prestito alcune immagini letterarie e filosofiche, il pianto e la risata improvvisa di Georgina a cui seguono quei “no”, che fungono da spartiacque tra la prima parte della conversazione e l’ultima, potrebbero consistere in quella che studiosi come Francesco Orlando, basandosi sugli studi psicanalitici di Freud, chiama “formazione di compromesso“. Bisogna dunque considerare Georgina come una personalità scissa e il pianto e la risata manifestazioni improvvise e incontrollate di una parte della sua personalità che viene repressa da una personalità più forte, potremmo dire anche meno “umana”, attraverso la quanto mai appropriata in questo caso, negazione freudiana. Georgina rivolge quei “no” più a se stessa che a Chris, quasi a voler sedare l’istintivo moto d’umanità a cui sembra inconsciamente abbandonarsi, creando un compromesso tra questa e la crudeltà.
Abbiamo dunque a che fare con un personaggio molto complesso, che rispetto a tutte le altre figure presenti, sembra presentare una scucitura nella maschera che si è cucita addosso. Il termine “maschera” non è casuale. Infatti, come diceva Pirandello, siamo in presenza di personaggi che indossano delle maschere diverse a seconda delle situazioni, in maniera perfetta.
Il pianto e la risata non possono essere semplici sintomi a intermittenza e casuali di una psicosi alterata e burbera. In particolare la risata, come affermava Bergson ne “Il riso“, deve essere compresa perché è una delle espressioni della vita. Considerando il riso come un impulso spontaneo e naturale, in questo caso si può parlare di riso isterico, frutto non di una situazione divertente, ma di una sorta di “epifania“, che porta Georgina a rendersi conto con dolore (difatti la prima e naturale reazione è stata piangere) che ciò che sta avvenendo nel suo dialogo con Chris e in generale in quella casa non sia normale. D’altronde stesso Bergson teorizzava che il riso fosse una reazione spontanea a tutti quei comportamenti ”anomali”, lontani dallo ”slancio vitale”.
Manifesto di dissenso non di una razza, ma di un’intera umanità
Jordan Peele è riuscito a ideare attraverso la creatività qualcosa di tormentosamente vero, ad entrare nelle crepe sottilissime che l’uomo prova a nascondere con guaine di pseudomoralità sempre più sofisticate, senza smarrirsi in un tentativo di critica socio-politica spietata, ma dando anche il giusto spazio all’intrattenimento coinvolgente del genere proposto, mescolando alla perfezione tutti gli elementi a sua disposizione. Get Out è un vero e proprio manifesto di dissenso non solo da parte di una razza, ma di un’intera cerchia di individui che riconoscono nelle discriminazioni e ingiustizie sociali uno scoglio da superare, al di là della propria appartenenza singolare. Ognuno di noi può sentirsi Chris Washington agli occhi di qualcun altro, ma l’importante è cercare di non far sentire nessuno come Chris.
Emanuele Rubinacci