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Leggere Jacques Rancière
Rancière, tra quanti in Francia nel 1965 operarono chirurgicamente su Il Capitale di Karl Marx sotto la guida di Louis Althusser, è investito da un’ottimismo quasi immotivato verso le democrazie liberali. Sulla tale scena l’autore rappresenta la propria teoria estetica, il cui approdo è certo l’opera Le partage du sensibile. Esthetique et politique.
Prima di addentrarsi nell’opera rancièrana dedicata alla relazione tra le due discipline, servirà restituire la temperie intellettuale entro cui l’autore agisce. Se il post-modernismo esibito da Jean-Francois Lyotard ha certo permesso di riconsiderare la multivocità per mezzo di cui il mondo si esprime, è con Michel Foucault che tale multivocità ha indossato i propri abiti più politici sino ad approdare a una estetica dell’esistenza.
È il governo dei viventi non più dall’alto di una mano che, seppur invisibile, decida per una collocazione anodina dei corpi; ma di un brulicare di mani che ora intessono, ora riposano. La nascita della biopolitica non può lesinare un’indagine dove l’ontologia dell’attualità calpesti il suolo delle democrazie liberali, saggiandone i vorticosi regimi di spazialità ed eterotopia.
Una fusione dell’arte e della vita
Distribuzione del sensibile, dunque, è il titolo che denuncia la mescolanza tra estetica e politica. È una economia non già di entità materiche, sia pur afferenti all’arte, piuttosto il sentimento di piacere o dispiacere che investe il soggetto al cospetto dell’arte e gli permette. Lo costringe a un giudizio riflettente.
È la «fusione dell’arte e della vita» come pure esordisce l’opera di Rancière, una certa «estetica della politica», in quanto «la reinterpretazione dell’analisi kantiana del sublime portava nell’arte quel concetto che Kant aveva situato al di là dell’arte». Chiaro che l’interlocutore polemico sia l’esistenzialismo umanista mondanamente esibito da Jean-Paul Sartre. Il proposito di costui era di annientare la gratuità del romanzo, sostituendola con l’engagement dei letterati. Il silenzio era dunque un delitto compiuto ai danni dell’utopia: Flaubert era colpevole della disintegrazione della Comune perché non aveva pronunciato alcuna dichiarazione in sua difesa.
Distribuzione di regimi
L’estetica è dunque un regime specifico per poter identificare e rendere intelligibili le opere d’arte, felicemente costretto a un modo di articolazione tra una triade di elementi. La forma di visibilità dell’opera diviene produzione dialettica tra le forme di pratica creativa – scolpire un blocco di marmo, preparare un romanzo e così via – e propri modi di concettualizzazione. È un regime etico delle immagini, un modo specifico di articolazione tra il visibile e lo scibile entro la struttura politica. La «scena della visibilità di un mondo ordinato».
Tre sono i regimi d’identificazione dell’arte. Il primo, etico, osserva le immagini entro la struttura relazione mittente-destinatario; il secondo, rappresentativo o poetico, identifica le arti attraverso una legislazione determinata, come quella dell’imitazione; il terzo, estetico, lascia collassare generi e gerarchie, spalancando l’uscio alla sensibilità.
Se l’opera platonica agisce su un regime etico delle immagini, quella aristotelica si conforma di contro nell’identificazione di una serie di assiomi che definiscano alla maniera delle rappresentazioni l’essenza dell’arte. Estetico è infine il regime che annienta la gerarchia sovrana, promuovendo l’eguaglianza nella rappresentazione, pur sensibile, dei soggetti giudicanti. Tali regimi sono trans-storici, è dato loro di agire contemporaneamente e in contraddizione. La democrazia liberale vince qualsivoglia sovranità.
Ontologia della tecnica e democrazia del sensibile
V’è dunque a fondamento della politica, sostiene Rànciere, una estetica «che non ha nulla a che fare con l’estetizzazione della politica». Chiaro che l’altro interlocutore polemico sia Walter Benjamin, il quale in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica aveva teorizzato che la produzione seriale di opere d’arte sclerotizzasse l’aura misticheggiante dell’opera d’arte nell’epoca antica annientandone l’esibizione culturale.
Né un’estetica che sia l’esatta rappresentazione della pratica politica né che possa tormentandola squarciarla, bensì vi è un’immanenza del tutto democratica di estetica e politica.
«Bisogna a mio avviso prendere le cose al contrario. le arti meccaniche possano donare visibilità alle masse, o piuttosto all’individuo anonimo, devono anzitutto essere riconosciute come arti»
Con queste parole Rancière argomenta contro quanti come Benjamin si sono macchiati di onto-tecnologia, di aver così tanto impegnato la nozione di tecnica da averne fatto un simulacro dell’ontologia
Una fabbrica del sensibile
Tale è il territorio dove si consuma la distribuzione della sensibilità, certo imprecisa e polemica di modi d’essere e delle occupazioni dentro uno spazio di possibilità. Si è allora al cospetto di una «fabbrica del sensibile».
Diseredata di ogni gingillo che risuoni universalità, la teleologia esibisce ancora una volta le proprie forme, le quali non tradiscono l’immanenza (bio)politica che le ha plasmate senza possibilità d’emancipazione.
Della finalità si confondono interno ed esterno; quel proprium di cui il fine dovrebbe dire il carattere è surrettiziamente sostituto dalle mani invisibili che distribuiscono insieme sensibilità e destino, logos e pathos. Perfidia delle perfidie, ancora una volta servirà invocare Foucault, ragionevole.
Lo spettatore emancipato
Nessuna possibilità d’evasione, dunque? Nient’affatto. Lo spettatore non osserva passivamente l’opera, ne è coinvolto con tutto sé stesso, pone anzi sé stesso nell’opera. Tale individualismo non è che loisir, tempo libero, ma pure divertissement, la distrazione da qualsivoglia regime che desideri imbrigliare e assoggettare lo sguardo. La cura? Partecipare al sensibile.
Antonio Iannone
Bibliografia
J. Rancière, La partizione del sensibile. Estetica e politica, DeriveApprodi, Roma 2016; ID, Lo spettatore emancipato, DeriveApprodi, Roma 2017.