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Il dio che invidia l’uomo
Il termine greco phthonos (lat. invidia), impiegato nll’espressione phthonos ton theon, si traduce spesso con “invidia”. Tuttavia indica un concetto diverso da quello sotteso al corrispondente italiano. Più che alludere al vizio capitale di chi soffre per il mancato possesso di un bene e per il fatto che altri ne godono, phthonos si riferisce in primo luogo alla volontà di sottrarre qualcosa. Questo impulso di negazione si concretizza in un sentimento più forte e aggressivo della semplice invidia. Implica infatti lo scopo deliberato di limitare il bene altrui, per ragioni più o meno giuste.
Tale neutralità delle intenzioni (lo phthonos greco è “pulsione o tendenza a sottrarre, negare, limitare”) fa sì che lo spettro della parola greca sia più ampio. Dietro phthonos si nasconde senz’altro l’invidia rapace (affine al verbo greco megàiro). Ma vi è compreso anche l’impulso a limitare la smodatezza di chi troppo gioisce della felicità conseguita. In quest’ultimo contesto si giustifica la possibilità che una divinità invidi l’uomo: lo phthonos ton theon. Per inciso il fatto che “abbondanza” possa tradursi in greco anche come aphthonìa ci chiarisce per contrario il termine primitivo.
Lo phthonos ton theon nel mito
Nel mito greco l’invidia del dio è sempre in agguato. Basti pensare che perfino eroi pii e santi corrono il rischio. Per esempio alla fine dell’Alcesti di Euripide Heracle augura ad Admeto, felicissimo per la resurrezione della moglie, che per questa felicità eccessiva gli dèi non debbano mai invidiarlo:
“HERACLE Parlale: hai tutto quello che desideri.
ADMETO Vi ho, corpo e sguardo della mia amatissima,
né più speravo né credevo scorgervi!
HERACLE Li hai: dagli dèi non ti colpisca invidia.” (Trad. Daniele Ventre)
L’invidia del dio è in effetti la risposta alla hybris dell’uomo quando questi diviene troppo potente e si dimentica degli dèi. Essi allora colpiscono l’uomo con sciagure devastanti.
Così Aracne, troppo orgogliosa della sua abilità nel tessere, è trasformata in ragno da Athena. Allo stesso modo Niobe, madre troppo felice, osa offendere Leto, e i suoi due figli Apollo e Artemide ne sterminano la discendenza. Sempre Athena colpisce Aiace troppo orgoglioso della sua potenza di guerriero. Hera invece, oltre che da gelosia verso Alcmena, è spinta anche dall’invidia dell’eccessiva gloria di Heracle, determinandone la pazzia omicida. Così accade che Heracle, aizzato da Lissa, la Follia, stermina i propri figli e trucida la sua prima moglie Megara. Il nome di Megara, tra l’altro, significa appunto “l’invidiabile”, poiché come nome parlante è connesso a megàiro, che abbiamo detto essere uno dei verbi dello phthonos.
Origini antropologiche
L’origine della cosiddetta invidia degli dèi è nello stesso tempo semplice e per noi totalmente aliena. Un tratto psicologico delle comunità tribali arcaiche di tutte le civiltà è costituito dalla tendenza a identificare nell’eccesso di abilità o di potenza o di bellezza una causa di sventura.
Per esempio, presso le popolazioni indonesiane accade che il cane da caccia troppo abile sia portatore di sventura per il suo padrone. Un raccolto troppo abbondante o una fortuna ripetuta o il successo nell’accumulare beni e ricchezze desta nelle comunità primitive un ovvio risentimento a cui si associa spesso un timore superstizioso. Così è anche in una leggenda africana, in cui la bella del villaggio viene uccisa dall’invidia delle sue coetanee.
L’eccezionalità è vista come portatrice di bene e male al tempo stesso. L’eroe poi è l’ideale bersaglio dell’invidia del dio, data la propria specifica natura. Un eroe o un’eroina sono infatti dotati di caratteristiche sovrumane, ma sono mortali, sia che nascano da un genitore divino e uno mortale, sia che nascano da famiglie totalmente terrene. L’eroe è pertanto, come re sacro, o come immagine umana del dio (“pari agli dèi”) destinato al sacrificio: è nobile e maledetto.
Derivazioni etiche e sopravvivenza nella filosofia
Lo statuto dell’eroe per la sua eccezionalità è dunque sempre a rischio. Questa dimensione di superiorità all’uomo comune si paga con il pericolo costante dell’eccesso. Ne viene fuori il classico motto della sapienza delfica che in vario modo è attestato in proverbi popolari e massime di poeti.
Così Archiloco rinnova il classico medèn agan (=nulla di troppo) apollineo, adattandolo ai suoi casi. Da questa evoluzione poetica dell’antico phthonos ton theon dovuto all’eccesso, viene fuori la tipica visione prima platonica e poi aristotelica della mesòtes, la medietà, come criterio di equilibrio etico. L’idea filosofica secondo cui in medio stat virtus è senz’altro l’interiorizzazione del timore che un dio insegni all’uomo a stare al suo posto limitandone l’eccesso.
Ma a quel punto il dàimon socratico e la psykhé razionale hanno sostituito il potere esterno e vincolante degli Olimpii con la capacità dell’uomo di dominare se stesso.
Arianna Colurcio