La sana avversione al wagnerismo: Verdi e Wagner o Verdi o Wagner? Ottimo quesito per nulla scontato. S’è spesso parlato, anche troppo, di questa presunta rivalità tra i due. L’avversione al teatro germanico è giusta se non è sterile e immotivata.
Questa sana antipatia diviene tale se s’offende Verdi, soprattutto quello giovanile.
Spesso le opere giovanili di Giuseppe Verdi, quelle composte durante gli “Anni di Galera”, (periodo di intenso lavoro definito in questo modo da Verdi stesso in una lettera del 12 maggio 1858 alla contessa Clara Maffei), vengono considerate come opere di scarsa qualità musicale; figlie di un periodo che viene spesso identificato (erroneamente) come un lungo momento di decadenza del livello artistico della produzione verdiana.
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L’importanza del primo Verdi
Per i neofiti dell’Arte Verdiana, per gli snobisti pseudointellettuali seguaci di una musica considerata avversaria del melodramma, ovvero quella sinfonica e quella da camera, le opere giovanili del nostro Verdi non sono altro che macerie di figurazioni ritmiche e melodiche antiche, superate; macigni appesantiti da accompagnamenti musicali staccati e dozzinali; deserti popolati da un’arida scarsità d’invenzione melodica; strade brecciose battute e calpestate da soldatesche sgangherate.
L’avversione al wagnerismo s’inalbera e si raddoppia quando i francofili e i filogermanici tra le scivolate oziose e stereotipate, che sarebbero state partorite, quindi, dalla mano ferma e sempre sapiente del Maestro, gettano anche opere come I due Foscari, Attila o I Masnadieri. Cosa surreale.
Ora, abbruttire il capo di questo colosso dalle “lanose gote”, per citare Dante, con la parrucca della frenesia e baldanza ritmiche, solo perché si preferisce una musica da “ammazzare un toro” (G. Verdi, 1852), sembra davvero assurdo.
Questo periodo non è una discarica di soluzioni musicali accatastati progressivamente, come afferma qualcuno, ma è un periodo di fondamentale importanza anche e soprattutto per la composizione di opere future, quelle più famose: un tema presente nel Quintetto dell’Atto primo dei Lombardi lo ritroveremo, dieci anni dopo, ne Il Trovatore; un tema presente nel preludio de I due Foscari lo ritroveremo poi nella Messa da Requiem del 1874 ovvero nel celebre Dies Irae. Questi solo pochissimi esempi.
Attenzione: questo riutilizzo di vari temi, effettuato da Verdi, non deve però rappresentare un pretesto per sentirsi in diritto di conferire alle opere di questo periodo il titolo di sterili palestre di esercitazioni, assolutamente no! Le opere del periodo giovanile posseggono un significato ed un senso precisi, sempre figli di un lavoro raffinatissimo, talvolta accademico, perché il Verdi di questo periodo è un Verdi imbevuto ed intriso di musica di reminiscenza rossiniana, belliniana e donizettiana (ovviamente, o a chi altri si sarebbe potuto ispirare Verdi se non a loro!), ma sempre puramente raffinato!
È sempre Verdi
Come si può considerare minore la Sinfonia della Giovanna d’Arco? Una delle migliori composizioni orchestrali del periodo giovanile. Mirabile è il drammatico “Allegro” che tosto s’innervosisce e si placa assumendo poi le pastorali forme d’un delizioso ricamino di flauto, clarinetto ed oboe. Efficacissimo poi, per la brusca sequela di effetti temporaleschi, è un suo celebre quadro naturalistico. Il cielo nero e procelloso di una selva, abituro di demoni, viene sapientemente restituito con varie cariche esplosive d’effetti musicali, spesso ritenute convenzionali. Questo breve pezzo sinfonico, d’introduzione alla scena del prologo, viene spesso considerato rudimentale e rozzo. Musicalmente non è affatto spregevole.
Per non parlare poi di Alzira, opera napoletana del 1845. Certamente non è un capolavoro assoluto, ma è un ottimo lavoro relativo, in quanto presenta felicemente una ottima tessitura di rapporti col passato. Non si tratta di velleità rivendicative, ma anche questo è Verdi. E ascoltare Otello e Falstaff, beandosi dell’influenza intellettualistica di Boito, senza conoscere quest’opera, non ha senso.
Wagnerismo e vecchie rivalità
Vero è che il primo Verdi e quello della cosiddetta triade popolare sono le bandiere dei verdiani puri, quelli che felicemente rifuggono dalle contaminazioni germaniche, asserragliandosi in fortezze italiche e continuando quella sana e sempre giusta avversione al wagnerismo, ma è anche altro. Ovviamente Verdi non è la vecchia e superata satira francese (patita della sterile Opéra con balletto obbligatorio, odiata dai nostri amatori del melodramma italiano), ma è teatro, che non s’abbandona quasi mai ai giri di valzer del teatrino parigino, a cui Verdi qualche volta ha ceduto rinunciando “al trono offertogli dall’Italia, per sedersi sopra una panca di Francia! Orrore!!”. Ma anche questo è Verdi, magari è un Verdi francesizzato che la stampa francese stupidamente elogiava come rinnovato e progredito (come se prima dei Vespri, Verdi avesse composto nulla di buono: complimento offensivo), ma sempre Verdi è.
Otello e Falstaff sono senz’altro intrise di wagnerismo. Che ben vengano i nostalgici della cabaletta, poiché non hanno “riscoperto” le opere giovanili, come la pesante critica filogermanica del Novecento affermava, ma le hanno ascoltate con cura, intendendo la probabile presenza d’un accompagnamento staccato e decorativo non come un fine ma come un mezzo nobilissimo per colpire schiettamente e senza inutili infingimenti le nostre viscere.
Necessità d’un recupero
Otello è un’opera teatrale imbevuta di wagnerismo, dunque. Nulla contro, ovviamente, anche perché è venuto fuori un miracolo di teatro drammatico. E allora non possiamo paragonare quest’opera a tutta la produzione precedente perché è un’altra cosa. Prima differenza chiaramente evidente: abolizione di divisioni di numeri staccati con conseguente formazione del dramma unitario. Ed è qui che si deve operare con famelica sapienza lo “sport della caccia alla cabaletta”, come Massimo Mila furbamente deprecò l’ammirazione per il Verdi giovanile, non già per sterile accettazione del primo Verdi, ma per sottolineare quanto il primo Verdi non sia inferiore a quello maturo. Non si capisce l’avversione al pezzo chiuso. In Italia, è sempre stato così.
Operiamo perché si recuperino opere come Stiffelio o Aroldo, suo rifacimento. Peraltro proprio Aroldo potrà benissimo testimoniare come, ad essere stata germanizzata, non sia stata l’inventiva del Maestro, ma semplicemente la struttura dell’Otello. L’espressionismo della scena iniziale della tempesta dell’Otello, la sua violenza estrema e la sua dinamicità sonora, provengono chiaramente dall’Atto quarto dell’Aroldo. Aroldo è un rifacimento del 1857; Otello è del 1887. Dunque, tutte cose che Verdi già possedeva da trent’anni, ma che, dopo sedici anni di silenzio, ha potuto maturare e trattare con maggiore consapevolezza.
Ma come dar torto ai wagneriani quando anche un italiano, sedicente esperto d’opera e giornalista musicale, paragona un acuto verdiano a un orgasmo. Tutto dipende da noi. Se costui avesse detto questa cosa riferendosi a un lavoro mozartiano, le truppe austriache c’avrebbero invaso nuovamente. Tocca a noi tutelare il nostro patrimonio!
Nicola Prisco