“Cosa ci rende umani?” Con questa frase, con questo slogan si accompagnava e si accompagna in ogni dove la campagna marketing di Detroit: Become Human, anche prima dell’effettivo rilascio della nuova opera di Quantic Dream sugli scaffali di tutti i negozi di videogames e sullo storie digitale PlayStation, che vanta l’esclusività del titolo.
Eppure, sebbene essa potrebbe sembrare una mera frasetta buttata lì giusto perché suona bene ed entra subito nella testa del casual gamer medio, il game developer, scrittore e musicista francese David Cage, director proprio della nuova opera partorita dallo studio di Parigi, sembra voler rispondere proprio a questa apparentemente stupida ed insulsa domanda.
In una Detroit del 2038 oramai quasi interamente popolata da androidi, usati per qualsiasi tipo di faccenda casalinga e non, la storia messa in scena dal buon Cage vede protagonisti Kara, una ragazza androide al servizio di una famiglia disfunzionale in cui un padre violento ed alcolizzato non si preoccupa più di tanto di sua figlia piccola, facendo anzi di tutto per traumatizzarla e renderle l’infanzia impossibile, Marcus, che si occupa di un vecchio artista magnanimo che gli farà comprendere meglio i pregi e le peculiarità degli esseri umani, e Connor, automa poliziotto del dipartimento di polizia di Detroit impiegato per fini investigativi, nonché il modello più sofisticato di androide prodotto dalla Cyberlife, praticamente la Apple nel campo della cibernetica all’interno del mondo creato da David Cage.
Ed ecco che in questo contesto socio-politico, creato da Cage con l’aiuto nella scrittura dal talentuoso Adam Williams, accade che alcuni androidi arriveranno a contravvenire alle proprie regole di programmazione, comportandosi in modo autonomo ed imprevedibile finendo quindi per diventare ciò che in gergo viene definito “deviante”, con conseguenze che finiranno per influenzare ed a cambiare irrimediabilmente il modo di percepire la realtà da parte dei protagonisti delle tre storie, insieme a quello degli USA prima ed in seguito del mondo intero.
Pochi giorni prima dell’uscita ufficiale del gioco, venne rilasciata una demo sul PS Store che vedeva protagonista proprio Connor nelle fasi iniziali della vicenda, alle prese con un androide deviante che prende in ostaggio una bambina minacciando di ucciderla se non verrà rispettata la sua volontà e la polizia non acconsentirà ad ottemperare le sue richieste. Nei panni dell’androide detective, dovremo fare di tutto per salvare la bambina cercando di ottenere il maggior numero di informazioni possibile sul deviante e su cosa muova le sue azioni.
Il gameplay di Detroit: Become Human nel dettaglio
Proprio dalla suddetta demo di Detroit: Become Human, si può evincere che il sistema di controllo riprende molto dai passati lavori dello studio come il grande Heavy Rain del 2010 oppure come il più recente Beyond Two Souls del 2013 (senza dimenticare Omikron: The Nomade Soul sotto l’egida di Atari del 1999 e il Fahrenheit per Ps2, Xbox e Windows del 2005).
È possibile ad esempio muovere il personaggio protagonista con la levetta analogica sinistra, avendo una certa libertà di movimento anche se non totale e quindi limitata ad uno spazio determinato dalla situazione e dal contesto di gioco del momento. La telecamera è gestibile con la levetta analogica destra per esplorare ed ammirare il lavoro fatto dai tecnici di Quantic Dream sulle texture dei vari personaggi, curate nei dettagli, potendo decidere se inquadrare il nostro avatar in figura intera e in primo piano, con il conseguente dipanarsi di nuove possibilità nell’ ambito dell’ intrattenimento videoludico e della sua (ormai ben radicata) ibridazione col cinema, e la possibilità di fermare il tempo con il tasto R2, per poterci concentrare sull’ indagine e sull’ analisi dell’ ambiente che ci circonda.
Un impianto tecnico e grafico di prim’ordine fanno di Detroit: Become Human un piccolo capolavoro del suo genere, che si ispira palesemente anche alle varie avventure grafiche prodotte da TellTale Games, nelle quali le scelte fatte dal giocatore influenzavano di gran lunga il prosieguo della storia (sebbene la software house californiana abbia attinto a piene mani dalle opere di Quantic Dream per alcuni suoi lavori, seppur senza la stessa verve che contraddistingue le opere di David Cage e del suo team).
Un videogioco che riesce più di una volta durante le sessioni di gioco a far riflettere il giocatore inducendolo a farsi delle domande proprio su cosa significa essere umani, sui sentimenti che un essere umano può provare, e sul fatto che, se un giorno le macchine arriveranno a provare emozioni, come l’empatia nei confronti di un’altra persona, l’amore, la felicità, l’odio, potranno anch’esse essere considerate “umane”?
Temi come l’automazione nel mondo del lavoro, con il conseguente licenziamento di massa di operai ormai disoccupati in un periodo storico che sembra andare sempre a loro danno, la diversità (viene esplicitamente anche spiegato che la Cyberlife crea androidi con l’aspetto di persone di ogni razza e sesso, per risultare più accettabili e meno ostili nei confronti degli umani) e la discriminazione razziale attraverso slogan e frasi troppo simili a quelle pronunciate da certi leader politici realmente esistenti, ci fanno capire che Detroit: Become Human va molto oltre il semplice concetto di “videogioco” come semplice opera interattiva, ma fa in modo che esso risulti bensì come un medium di comunicazione vero e un’arte con la “A” maiuscola vera e propria, con le proprie caratteristiche e le proprie peculiarità, che riesce a dare un messaggio molto forte alle nuove generazioni che si apprestano a far parte del nostro mondo.
Antonio Destino