Firenze è conosciuta in tutto il mondo come “la culla del Rinascimento”, periodo di splendore artistico e culturale per il capoluogo toscano, e di rimando anche come la “città dei Medici”, potentissima famiglia che vi instaurò una delle signorie più conosciute. Quest’immagine, sebbene non errata, rischia di darci un’idea troppo riduttiva della storia fiorentina, difatti la fioritura culturale quattrocentesca affonda le sue radici già nel secolo precedente. Inizia tutto da un periodo di evoluzione e mutamento: la Firenze del Trecento.
Uno dei miti da sfatare riguarda il carattere “signorile” di Firenze, in realtà la città fu uno dei comuni più longevi ed orgogliosi, dal 1115 al 1437, infatti, mantenne un’istituzione repubblicana.
Storia politica di Firenze
A capo della Repubblica fiorentina vi erano i Priori, cioè il gruppo dirigente delle Arti, diviso al suo interno in “Arti maggiori” e “Arti minori”, tale distinzione è dovuta alle alleanze tra grandi commercianti e banchieri che tendevano a limitare i gruppi artigianali minori. Quest’ultima è la forma finale di un processo di continuo mutamento che il comune fiorentino ha attraversato a causa di lotte interne e tumulti internazionali.
Il più noto e significativo esempio è lo scontro tra i Guelfi e i Ghibellini, che rientra in un quadro più ampio, sia geograficamente che cronologicamente: il braccio di ferro tra papato e impero. I Guelfi erano a favore del papato, i Ghibellini dell’impero. I primi prevalsero, dividendosi al loro interno in “Neri” e “Bianchi”, capeggiati rispettivamente dalle famiglie dei Donati e dei Cerchi.
I conflitti politici della Firenze del Trecento si tramutavano inevitabilmente in scontri militari, sia all’interno delle varie fazioni sia della città con altri comuni o potenze, come la Guerra degli Otto Santi, scaturita dalle intenzioni del papato, in quegli anni con sede in Avignone, di riassoggettare le città centrali della penisola in vista di un ritorno a Roma. La guerra si consumò tra il 1375 e il 1378.
Altro evento degno di nota è senz’altro il Tumulto dei Ciompi, una sommossa popolare avvenuta nel 1378 che vede protagonisti i lavoratori salariati del tessile (ciompi, appunto) e si tratta di una dei primi casi di rivendicazione sociale e politica.
La rivolta pose la questione di una rappresentanza interna alle Arti, richiedendo la partecipazione alla vita istituzionale anche per le Arti Minori, finalizzato ad una riforma fiscale e dei salari. La rivolta fu appoggiata anche da altri settori di salariati, inizialmente ebbe anche successo con la formazione di un governo. Il tutto ebbe però vita breve e la parentesi dei Ciompi si concluse con la repressione feroce e violenta dei rivoltosi.
Mutamenti sociali e culturali di Firenze nel Trecento
La Firenze del Trecento raccolse l’eredità artistica del secolo precedente, furono completati i lavori di opere importanti, destinate a diventarne simbolo come la cattedrale o Palazzo Vecchio e furono iniziate delle nuove di altrettanta importanza: il campanile di Giotto, la Loggia del Bigallo e la Loggia della Signoria.
Ma anche il mondo culturale era in una fase di transizione. Il pensiero iniziava ad articolarsi, evolversi e a spaziare, assumendo tratti sempre più distanti dalla tradizione medioevale. Grande peso ebbe l’assetto sociale, il Trecento è infatti considerato emblematico per l’ascesa della borghesia.
La classe mercantile (anche se è più corretto fare riferimento a “ceti sociali” piuttosto che a “classi”) c’era sempre stata, ma ora acquista un’importanza di gran lunga superiore. Originariamente il mercante era semplicemente un intermediario tra venditore e compratore, col tempo i mercanti iniziarono ad investire il profitto ottenuto, cioè il capitale, nell’acquisto di nuove merci.
Tali investimenti potevano riguardare proprietà immobiliari o terreni, che assicuravano una rendita, ma più spesso erano indirizzati all’attività bancaria, tanto che era piuttosto comune che il mercante fosse anche un banchiere.
Furono proprio le famiglie di banchieri a fare la fortuna di Firenze del Trecento: gli Spini, i Frescobaldi, i Bardi, i Peruzzi, i Mozzi e i Bonaccorsi, sono solo alcuni nomi di famiglie che detenevano un’impresa bancaria di importanza internazionale, non di rado, difatti, costoro si trovavano a prestare denaro a pontefici e a sovrani.
Essere loro creditori però non era una garanzia di sicurezza economica, anzi, tutt’altro. Nel XIV secolo, queste famiglie attraversarono un periodo di instabilità finanziaria proprio per questo motivo. Alcune famiglie riuscirono a mettere in salvo l’attività investendo in feudi e castelli.
È da notare, però, che anche quando il mercante investiva in beni terrieri o immobiliari, non avevo lo stesso atteggiamento del nobile. Il mercante non si limitava a consumare la rendita , ma aveva un ruolo molto più attivo: si preoccupava di far fruttare il terreno, controllava i contadini, ma soprattutto rimetteva in circolo i proventi.
Questa prosperità economica attirò sempre più gente dalle campagne: iniziava una fase di inurbamento tanto rapida che all’inizio del secolo si dovettero ampliare due volte la cerchia originaria delle mura.
È proprio qui che sta la trasformazione: il dinamismo, l’attivismo, il cambiamento non soltanto come cosa possibile, ma come strumento per migliorare la propria vita, l’uomo non ha più valore solo se parte di un gruppo sociale, ma anche come individuo: l’uomo come fattore della trasformazione.
Ne deriva una maggiore volontà di vita terrena e mondana, di godere del frutto del proprio lavoro e della natura. Si gettano dunque le basi per la centralità dell’uomo nel mondo tanto cara al Quattrocento.
Gli estremi letterari della Firenze del Trecento: Dante e Boccaccio
La Firenze del Trecento è dunque una fase di transizione, ma al contempo, proprio per questo, una fusione tra due mondi o meglio, due concezioni, due approcci diversi al mondo. È un percorso che lascia segni profondi e tangibili, per renderci conto della portata di questi mutamenti basti paragonare le opere di due autori massimi della lingua italiana: Dante e Boccaccio.
La “Divina Commedia” e il “Decameron” hanno entrambe come obiettivo quello di rappresentare la realtà nella sua totalità, ma le due realtà sono profondamente diverse. Eppure gli anni in cui scrivono non sono così distanti come si potrebbe pensare: Dante muore nel 1321 e Boccaccio nasce nel 1313, le due opere sono state scritte a circa cinquant’anni di distanza ed è proprio in questo intervallo che si consolida un mutamento di prospettive che rende un mondo nuovo quello di Boccaccio.
Il termine “umanesimo” era già in uso nel Trecento ed indicava un’attitudine spirituale, cioè si considerava umanista colui che coltivando le lettere si distingueva per la sua cultura dalla creatura bruta, riuscendo a cogliere qualcosa di più del mondo.
Questa curiosità intellettuale è presente in Dante, basti pensare all’episodio di Ulisse (Inf., XXVI 118-19) le cui parole fomentano lo spirito di conoscenza dell’uomo, ma questo atteggiamento è al contempo ammirato e condannato, Ulisse viene punito.
Questo perché il Sommo Poeta ha una visone del mondo ancora di impostazione medioevale: egli crede in un fine ultimo del mondo, in un senso della vita che va ricercato nell’aldilà. Non disprezza il mondo terreno, nel De Monarchia sottolinea l’importanza dell’imperatore come guida per la beatitudine terrena, si occupa egli stesso di politica (con tutte le vicende connesse che lo porteranno all’esilio), ma il tutto è sempre subordinato alle auctoritas, all’ordine sociale, c’è poco spazio per l’individualismo e per il laicismo.
Questi ultimi due termini sono invece le parole chiave per comprendere Boccaccio: rivalutazione dell’Uomo tramite agli strumenti intellettuali e alle qualità personali.
Boccaccio dipinge un mondo più terreno e materiale, il Decameron si può considerare una sorta di “Commedia umana”, il ritratto delle virtù mercantili di intraprendenza ed ingegno, la cosiddetta “industria” umana. Boccaccio però non si limita ad elevare a rango superiore il mercante e i suoi valori , è pienamente consapevole dei suoi limiti.
Analizzando le novelle percepiamo non solo l’elogio della borghesia ma anche i limiti della “ragion di mercatura” (si veda la tragica storia di Lisabetta da Messina), per questo egli vagheggia un’ unione tra le qualità mercantili e la cortesia cavalleresca, esempio ne sono le figure di Federico degli Alberighi e Messer Torello, sono rispettivamente un nobile e un borghese che hanno colto gli aspetti positivi del ceto “rivale” e li hanno adottati.
In conclusione possiamo dire che la Firenze del Trecento è stata caratterizzata da un intreccio di eventi e mutamenti sociali, culturali, politici che nel rispecchiarsi tra loro hanno aperto la strada ad una delle stagioni più floride della città e che si è poi propaga per l’Italia tutta.
Miriam Campopiano