Debutta martedì 12 giugno, nel contesto del Napoli Teatro Festival 2018, lo spettacolo Trilogia dell’indignazione, una regia di Giovanni Meola tratta dalla trilogia di Esteve Soler: Contra el progreso, Contra l’amor, Contra la democrazia.
Testi già apprezzati, tradotti e rappresentati in molteplici paesi quelli della Trilogia dell’indignazione; riescono, in questo singolare adattamento, a spingere il pubblico, inconscio, verso un processo di indignazione che si realizza automatico man mano che l’assurdità del testo si snocciola e lascia spazio alla percezione che quanto di più curioso stiamo assistendo non è mai davvero irrealizzabile; basta voltarsi indietro, verso la storia, per ricordare che gli orrori che ci paiono più inconcepibili li abbiamo compiuti senza neanche concepirli.
Le storie presentate nella Trilogia dell’indignazione sono lontane da ogni forma delle nostre abitudini convenzionali, come tutto il contesto entro il quale si svolgono, dallo spazio ai costumi, dallo stile degli attori ai loro movimenti.
La scenografia, firmata da Flaviano Barbarisi, ricorda una gabbia: una costruzione movibile in ferro, composta di cinque membra differenti collegate ad un palo che vengono con facilità spostate dagli attori e creano ambienti simbolicamente differenti a seconda delle esigenze di scena. È una scenografia viva, partecipe, che ospita e sostiene la rappresentazione ma ne bracca le componenti umane e sensibili.
Gli attori in scena – Enrico Ottaviano, Sara Missaglia, Roberta Astuti e Chiara Vitiello – si arrampicano in questa danza di veloci variazioni di ruoli, testando fra loro diverse posizioni, passando dalla situazione di coppia a quella di padroni e dipendenti, genitori e figli, e soprattutto, sempre presentati e seguiti dall’originale voce esterna (ma in campo) che argomenta la vicenda durante il suo svolgersi tinteggiandola di una personalità precisa rispetto all’atteggiamento di naturalezza con il quale gli interpreti provano a mostrare consone le affermazioni più inumane. La specificità della voce in campo, che in ogni scena è quella di un attore differente, sta proprio nel carattere che le si affida a seconda della vicenda: dal canto gregoriano al lamentoso passando per la cantilena.
Per tutti gli attori i toni di voce, lo stile, si adeguano agli episodi raccontati, variano, si diversificano, ma confluiscono tutti in un punto: l’irrealtà.
La semplicità con la quale si espongono pensieri lontani dai minimi dei valori dell’essere e saper essere umano quasi stordisce, manda in confusione lo spettatore della trilogia; eppure, le sottili venature del sentimento di inumano, anche se inconsciamente, è impossibile non avvertirle.
I costumi stessi, di Marina Mango, completano il quadro di una stilizzazione tale da perdere il contatto con il reale. Costumi che spersonalizzano l’umano: ogni attore della trilogia indossa un informe tuta di un diverso colore nelle sue sfumature, intagliate in forma geometriche; l’idea di un mattoncino, di una tesserina di un puzzle, di un ingranaggio di un macchinario che funziona e deve funzionare perfettamente solo nel complesso dell’incastro di tutte le obbedienti componenti, è presto ottenuto.
Nei sette (otto se si valuta che quello finale ne riassume due) episodi scelti da Meola a fronte dei ventuno della trilogia di Soler, la follia che li attraversa è venata del cinismo della lungimiranza sulla realtà; un capitalista che si erge a divinità, i sentimenti che vengono contrattualizzati (a tempo determinato per di più), morti e minacce di morti angosciose che disseminano un senso di inquietudine in situazioni che parrebbero semplicemente domestiche; perfino nella sicurezza dei rapporti familiari si instilla non il legame di sangue ma il suo spargimento.
La trilogia è questa: l’assurdo che lentamente si instilla sta nel progresso, nell’amore e nella democrazia, e che porta a perdere l’essenza dei tre valori, a commutarli in forze negative quali non sarebbero nati per essere.
Il pubblico della trilogia assiste all’irrealtà dell’impossibile, o di un reale ipotizzabile, che precipita rocambolescamente in ciò che avremmo sempre pensato amorale, antietico, disumano.
Valutazioni lecite per una società che, fautrice e vittima del futuro in qualità di conseguenza del presente, ancora non ne assume una coscienza precisa.
Letizia Laezza
Virus teatrali – (pagina ufficiale)