Tra i nomi che hanno dato lustro al nostro rinascimento, quello di Ludovico Ariosto prevale su tutti. Le sue Satire hanno imposto un modello per i cultori del genere e l’Orlando Furioso ha smantellato e rielaborato i topoi del poema epico tradizionale. Durante la redazione di queste ed altre opere, però, l’autore tiene attivo un piccolo laboratorio poetico che confluisce nelle Rime.
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Storia filologica delle Rime
Tra il 1493 e il 1527, Ariosto scrive versi sia in latino che in volgare. Tuttavia la raccolta di liriche fu pubblicata postuma nel 1546, con il titolo di Rime. Ariosto aveva pensato ad una loro sistemazione organica negli anni venti del ‘500, ma questo non sarebbe avvenuto.
Il Canzoniere ariostesco è costituito da 41 sonetti, 5 canzoni, 12 madrigali, 27 capitoli in terza rima e due egloghe.
Ariosto e il petrarchismo
Negli stessi anni in cui Ariosto componeva le sue liriche, Pietro Bembo in Prose della volgar lingua (1525) era giunto alla conclusione che i poeti dovevano guardare, tanto per la lingua quanto per i temi, a Francesco Petrarca come modello.
Il ‘500 italiano pullula così di poeti “petrarchisti”, che scrivono sulla falsariga del più importante libro di poesie della tradizione letteraria italiana, il Canzoniere. Lo stesso Bembo si esercita e, assieme a lui, Baldassarre Castiglione, Poliziano, Lorenzo il Magnifico. Un influsso che sconfina anche in Europa, se si pensa solo ai casi di Thomas Wyatt in Inghilterra e di Garcilaso de la Vega in Spagna.
Ariosto nelle Rime cerca di restare fedele ai canoni bembeschi, ma allo stesso tempo rivendica una propria formula che ricava dai Carmi di Catullo, dalla poesia elegiaca di Properzio e dalla lirica cortigiana degli Amorum Libri del Boiardo.
Nel segno di Alessandra
Gran parte delle liriche sono dedicate alla nobildonna Alessandra Benucci, incontrata dal poeta nel 1513 durante i festeggiamenti per l’elezione di papa Leone X e per il santo patrono Giovanni Battista. Il rapporto tra i due fu vissuto lontano dagli occhi di tutti anche dopo la morte del marito di lei, Tito di Leonardo Strozzi, avvenuta nell’ottobre del 1515, perfino quando Alessandra e Ludovico si sposarono in segreto.
Questo dato biografico è molto importante, in quanto è strettamente collegato con la poesia ariostesca che risente sicuramente di Petrarca e della tradizione cortigiana e stilnovista, ma allo stesso tempo la rilegge e la rinnova. Vediamo il sonetto XIII, Aventuroso carcere soave, uno dei più analizzati e studiati dalla critica.
Aventuroso carcere soave,
dove né per furor né per dispetto,
ma per amor e per pietà distretto
la bella e dolce mia nemica m’ave;
gli altri prigioni al volger de la chiave
s’attristano, io m’allegro: ché diletto
e non martìr, vita e non morte aspetto,
né giudice sever né legge grave
Il topos del carcere d’amore, visto come luogo di sofferenza degli amanti, dall’Ariosto viene rielaborato in un modello positivo. La prigionia è addirittura divenuta “soave”, perché qui il poeta si sente appagato e può consolarsi tra le grazie della sua “nemica”. Se attorno ai cuori degli altri prigionieri, che vanno senza dubbio identificati con i poeti della tradizione lirica precedente, Amore stringeva così forte i propri lacci facendoli soffrire, Ariosto invece avverte quella stessa stretta come un qualcosa di piacevole. Una cosa che si avverte anche nel sonetto III:
O sicuro, secreto e fidel porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m’han scorto;
ora io perdono al vento e al mar il torto
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle
io non potea fruir tanto conforto.
Il punto di partenza è il sonetto 234 di Petrarca, O cameretta, che già fosti un porto. Ma se l’autore del Canzoniere esprimeva il dolore che la passione per Laura gli procurava, tanto da intaccare persino la riflessione solitaria a cui la “cameretta” e il “letticciuol” erano destinati, quella stessa “cameretta” in Ariosto è la destinazione verso cui gli occhi della donna amata indirizzano il poeta, al sicuro dal turbine avvelenato della vita e della storia. Ma c’è di più:
O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
a goder d’ogni sol notte più chiara;
scorda ora i torti e i sdegni acri e protervi:
ché tal mercé, cor mio, ti si prepara
che appagarà quantunque servi e servi.
Da luogo dedito alla riflessione solitaria, la cameretta diventa il luogo segreto in cui il poeta e la propria donna possono consumare la loro passione con la complicità delle “dolci tenebre”. Basta questo all’Ariosto per dimenticarsi le ingiurie dei suoi avversari, poiché il proprio cuore verrà ben ricompensato.
Ecco quindi lo scarto essenziale tra la lirica ariostesca e quella di Petrarca: la concezione dell’amore. Le punte dei dardi di Cupido non sono più intinte di un veleno che distrugge il cuore degli amanti gettandoli nella disperazione, ma li avvolge con un filtro che conferisce loro gaudio e felicità. Da ciò si comprende anche l’assenza dell’ombra religiosa che albergava nel Canzoniere, il cui autore chiudeva con l’invocazione alla Vergine per ripulire la propria anima dal basso peccato d’amore. All’ascesa spirituale di Petrarca e dei petrarchisti, Ariosto predilige una rappresentazione reale, intima e a tratti giocosa dell’amore, come era tipico dei suoi modelli latini e del Boiardo.
Ciro Gianluigi Barbato
Bibliografia
Stefano Bianchi, Introduzione, in L. Ariosto, Rime, BUR.
Maria Amalia Camozzi, Introduzione, in F. Petrarca, Canzoniere, BUR.