I commentarii di Gaio Giulio Cesare annoverano, oltre al De bello Gallico, anche il De bello civili.
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De bello civili: struttura e datazione
Anche il De bello civili, come il De bello Gallico, può considerarsi diviso in due blocchi:
- libri I-II: le vicende del 49 a.C. (fuga di Pompeo e dei consoli, la guerra in Italia e in Spagna, l’assedio di Marsiglia e le operazioni in Africa);
- libro III: le vicende del 48 a.C. (la guerra in Epiro e in Tessaglia, la battaglia di Farsalo, la fuga e la morte di Pompeo in Egitto, l’inizio della guerra alessandrina).
L’opera potrebbe essere stata scritta negli anni 47-46 a.C. ma non si sa se sia stata pubblicata da Cesare stesso, perché il terzo libro non é completo.
Nel De bello Civili gli intenti propagandistici e auto-apologetici di Cesare sono meno sottili e celati.
I suoi avversari vengono presentati come corrotti e avidi, mossi da interessi e rancori. Catone, il difensore delle istituzioni repubblicane, si suicida a Utica pur di non assistere al trionfo di Cesare e della sua fazione.
Cesare esalta la sua condotta che viene presentata come esempio di moderazione e di rispetto della legalità. Particolare rilievo viene dato alla clementia cesariana nei confronti dei vinti, contrapposta alla crudeltà degli avversari e al ricordo delle stragi mariane e sillane.
L’apologia dell’operato di Cesare
Cesare persegue finalità ben precise quando descrive Vercingetorige come una sorta di Catilina; quando mostra le leggerezza dei Galli o la crudeltà del germano Ariovisto; quando deforma la realtà delle battaglie con omissioni e slittamenti cronologici; o quando fa di Pompeo, suo acerrimo avversario nella guerra civile, un personaggio piuttosto senza spessore.
Noi sappiamo, infatti, da Cesare stesso e da altre fonti, che mentre combatteva in Gallia, il suo operato era oggetto di feroci critiche. Catone Uticense nel 55 a.C. osò addirittura proporre di consegnare la persona di Cesare a Tencteri e Usipeti come espiazione del bellum iniustum intrapreso contro queste popolazioni germaniche.
Dopo l’inizio della guerra civile egli fu tacciato di illegalità. Cesare aveva osato oltrepassare il fiume Rubicone con le sue truppe, venendo meno al divieto per tutti i generali di entrare a Roma con un esercito.
Egli fu costretto quindi a difendere il proprio operato dai suoi detrattori e quindi la propria dignitas di magistrato di fronte all’opinione pubblica.
A chi si rivolge Cesare?
Non certo al Senato come istituzione, al quale erano indirizzate le relazioni ufficiali, e non certo ai circoli aristocratici. Si rivolgeva invece ai ceti che aspiravano a quell’allargamento della base politica dello stato romano per il quale ormai non si poteva più aspettare per l’ampiezza che aveva già acquisito l’impero.
Si rivolgeva ai cavalieri, più direttamente interessati alle conquiste, ai commercianti, gli homines novi che ben presto avrebbero sostituito in senato la vecchia aristocrazia terriera, o anche i singoli aristocratici mossi da ambizioni populistiche simili alle sue.
Una pluralità di destinatari testimoniata anche dall’assenza di un lessico troppo specialistico e la costante preoccupazione di definire le istituzioni della Gallia o di tradurre in termini comprensibili i nomi gallici.
In questo punto addirittura, al termine della campagna contro gli Elvezi, Cesare sembra allargare il pubblico alla nobiltà gallica che vedeva nel dominio di Roma un fattore di equilibrio contro l’instabilità endemica degli spostamenti tribali e delle guerre intestine; se così fosse egli sarebbe il primo degli storici romani ad accorgersi del nuovo ruolo delle province e dei loro ceti dirigenti e della necessità del loro consenso. E questo non ci stupirebbe.
È probabile che la sottolineatura delle origini rivoluzionarie anche in senso sociale della ribellione di Vercingetorige e la crudeltà e l’efferatezza della rivolta non siano estranee a questo scopo.
La conoscenza di imprese tanto grandi è lo scopo di Cesare. E’ lo scopo programmatico desunto dall’epica, di tutti i più grandi storici antichi, greci e romani: impedire che le imprese degli uomini finiscano nell’oblio.
Le imprese che Cesare descrive hanno dunque un destinatario che deve ricordarle e la finalità di giustificare agli occhi di quest’ultimo l’operato di chi le ha compiute.
Lingua e stile
Cicerone riassume le caratteristiche stilistiche essenziali dei commentarii cesariani nella formula pura et illustri brevitas. Un giudizio che richiama: al lessico, ridotto ed essenziale, depurato di arcaismi, forestierismi, poetismi per assicurare chiarezza espositiva; ad una sintassi dal ritmo incalzante, rigorosa e lucida, con un uso frequente dell’ablativo assoluto, dei costrutti participiali e de discorso indiretto; ad una narrazione concisa e chiara, quasi priva di ricami retorici.
Maria Francesca Cadeddu