Il 16 marzo del 1756 moriva a Bologna Antonio Maria Bernacchi, cantante castrato italiano.
Il nome non vi dice niente? Pensate che, allorché quest’artista fu chiamato al teatro londinese che Händel in persona si era messo in testa di dirigere, il Musico cantore fu salutato dalla stampa locale come il miglior cantante italiano.
Altri tempi – direte voi: era al più il 1729 – eppure suscita ancora oggi un gran fascino e, per qualcuno, una leggera nostalgia quel mondo il cui vero cuore socio-culturale era il teatro d’opera e in cui il cantante castrato – si annoverano, oltre a Bernacchi, i nomi del Senesino, del Farinelli, del Caffarelli o di Gaspare Pacchiarotti –, tra le polemiche e i pettegolezzi, calcava i palchi di tutta Europa ammaliando con la sua voce di cui oggi non possiamo che farci una vaga idea.
Rende più o meno il concetto l’annotazione che il diciassettenne Schopenhauer raccolse sul suo diario all’ascolto della voce di Girolamo Crescentini (1762-1846), coltissimo musicista, ammirato da Napoleone Bonaparte, e tra gli ultimi a tenere salda sul palco la moda del canto del castrato: una voce «bella in modo soprannaturale». Oggi quel mondo sonoro e di costume, al tempo sulla bocca di tutti, è pressoché sconosciuto al grande pubblico e trabocca di equivoci su questa figura, sessualmente e vocalmente ambigua, quasi irreale e proprio per questo ingrediente immancabile dell’acrobatico e fantasioso teatro sei-settecentesco. Ecco allora le cose che dovete sapere sul cantante castrato:
Il castrato non è un evirato
Quando famiglie squattrinate venivano convinte a castrare un figlio vocalmente dotato, il chirurgo procedeva alla sola rimozione dei testicoli, con conseguente alterazione delle facoltà ormonali del giovane. L’operazione era spaventosamente macabra e dolorosa: compiuta senza anestesia – al più con somministrazione di oppiacei al malcapitato –, spesso la morte sopraggiunta per le infezioni o il tetano si considerava dovuta alle sofferenze patite, che dovevano essere atroci.
Al sopravvissuto toccava poi il mancato sviluppo, o lo sviluppo in senso femminile, dei caratteri sessuali, tra cui, soprattutto, l’assenza di muta vocale e lo sviluppo di cavità toraciche particolarmente pronunciate. Pegni da pagare per alcuni l’accumulo di adipe su fianchi, glutei e petto. Sebbene la presenza pachidermica di qualche castrato sia stata spesso esagerata dalla satira, nel caso del Bernacchi questo aspetto doveva essere particolarmente vistoso e sempre il Musico cantore dovette fare i conti con certi brutti epiteti, tra cui «grasso come un frate spagnolo»[1].
Il castrato non è casto
Sebbene la castrazione comporti una cancellazione dell’appetito sessuale sotto il profilo medico, sappiamo che il castrato non abbandonava i piaceri della carne. Allorché Bernacchi impose all’impresario delle condizioni alla sua presenza per la stagione teatrale napoletana del 1729, presenza che non si ebbe mai per rivalità e scandali sopraggiunti, tra le richieste figurava quella di far scritturare con sé anche l’amante, Antonietta Merigi… eh sì, una donna: a quanto pare la castrazione non ha quasi niente a che vedere con l’orientamento sessuale.
Dall’altra parte, il fatto che Pietro Metastasio abbia distrutto molta della corrispondenza con Farinelli – che, aldilà dei pregiudizi, fu una figura chiave del panorama culturale del tempo, non solo sotto il profilo canoro e di immagine – ha lasciato supporre uno scomodo invaghimento del castrato per il poeta.
Il castrato non ha la voce di una donna
Possiamo solo immaginare la particolarità di una voce che raccoglie la leggerezza della voce bianca e la potenza di quella di un uomo adulto. Il castrato poteva vantare una vocalità femminile solo quanto al registro ma una gamma di timbri veramente incomparabile. Nel Settecento le loro prodezze e bizzarrie canore costituivano la principale attrattiva dei più grandi teatri: l’agilità di Bernacchi era tale da lasciare addirittura perplessi alcuni ascoltatori, che lo trovavano eccessivamente disumano. Il Conte Algarotti riporta a tal proposito [1] una frase emblematica che il maestro di quello avrebbe pronunciato udendo le cadenze proposte dal castrato, che più che da una voce parevano realizzate da un flauto:
Tristo a me, io t’ho insegnato a cantare, e tu vuoi suonare!
Capirete bene la difficoltà, oggi che si tenta di ripristinare filologicamente l’allestimento delle opere del tempo, a trovare le voci adatte, che oscillano tra quelle femminili più esotiche e quelle di contraltisti e sopranisti – uomini particolarmente agili nel falsetto.
Insieme alla condanna delle pratiche della castrazione, venne scemando con l’Ottocento, preda del Realismo e dell’eroismo titanico di certe figure romantiche, l’interesse per l’esotico castrato, che fu ben presto relegato al ruolo di cantore di cappella, fino all’estinzione. Di castrati naturali, perciò, non disponiamo più: unico reduce dall’oblio Alessandro Moreschi (1858-1922), cantore vitalizio della Cappella Sistina anche dopo il divieto – giuridico ed ecclesiastico – della mostruosa pratica. Sebbene il suo stile segua la moda patetica – e irritante – del tempo, la sua vocalità, assolutamente sconcertante, è un reperto prezioso di una tradizione così lontana ma che era stata tanto importante.
[1] Mary Pendarves, lettere del 29 novembre e del 6 dicembre 1729 alla sorella Ann Granville.
[2] Francesco Algarotti, Saggio sopra l’Opera in Musica, in Opere di Pietro Metastasio, Tomo VI, Napoli 1781, p. 41.
In copertina: Stefano Dionisi in Farinelli – Voce regina, film del 1994.
Fonte delle immagini: Google immagini.
Antonio Somma