Ne L’ossessione identitaria (2010), Francesco Remotti indaga a fondo le caratteristiche proprie del concetto di identità, mostrandone le fallacia e l’infondatezza. La tesi forte, sostenuta dall’autore, è la necessità di mettere fuori gioco, sia sul piano operativo che analitico, l’identità a causa della sua natura illusoria e mitologica. L’argomentazione proposta si serve della riflessioni filosofiche, sviluppate da pensatori come David Hume, le quali avvalorano le posizioni di Remotti. Cerchiamo, quindi, di ricostruirne le tappe fondamentali.
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La fallacia dell’identità
L’identità è uno strumento concettuale ampiamente diffuso ed utilizzato in ogni ambito della vita umana: dalla dimensione socio-politica alla sfera individuale. La ragione principale del successo dell’identità, secondo Francesco Remotti, risiede nella garanzia di permanenza e continuità, che ad essa si accompagna. L’identità mi consente di definirmi come soggetto unitario e, al contempo, di differenziarmi dall’altro da me. In verità, si tratta di una promessa mancata. Francesco Remotti, infatti, scrive:
“ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è finzione o, al massimo, un’aspirazione”.
Da cosa deriva, dunque, l’inganno identitario? Secondo la prospettiva di Remotti, l’identità rinvia all’esistenza di una sostanza o di un sostrato immutabile, che assicura ai soggetti la stabilità. La richiesta di riconoscimento identitario è una risposta personale al mutare delle condizioni socio-politiche e storiche. L’inalterabilità mal si adatta, però, alle caratteristiche dei gruppi sociali: i “noi” sono situazionali, sono realtà dinamiche in continuo divenire. Inoltre, l’adozione del principio identitario, per cui A=A ,comporta una descrizione dell’alterità in termini negativi. Altro è tutto ciò che non rientra nell’uguaglianza, confluendo nella macrocategoria di non-A.
La minaccia dell’alterità
Nella logica dell’identità, prosegue Remotti, l’alterità rappresenta una minaccia che attenta all’unità dei “noi”. I “noi” sono agglomerati socio-culturali, la cui genesi è da ricondurre a meccanismi di scelta inconsci. L’identità culturale è il risultato di preferenze particolari che determinano l’esclusione di altre possibilità. Da ciò consegue che la costituzione dei “noi” è un processo fortemente arbitrario e non necessario. La parzialità delle scelte è occultata mediante la reificazione dei prodotti culturali così ottenuti:
“valori, significati, idee, tutto ciò che è incorporato nelle istituzioni, nei costumi e nella cultura non è più considerato come l’esito di scelte, ma come se avesse una realtà a sé stante, come se fosse una res […].”
Il bisogno di alimentare l’integrità dei “noi” si traduce in strategie di integrazione di tipo assimilativo. La presenza dell’altro diventa un rischio, se si sottrae ai tentativi di assimilazione da parte dei “noi”.
Per Francesco Remotti, tale è ad esempio la relazione che Nietzsche delinea tra l’io e il non io. L’identità del “noi” è una finzione, che si realizza attraverso l’ipostatizzazione di immagini transitorie e relative. I noi sono continuamente esposti all’alterazione e all’eterogeneità, dalle quali si difendono inventando, appunto, l’identità. In quanto concetto finzionale, la sfida lanciata da Remotti è la sostituzione dell’identità, da parte di nuovi strumenti, sia sul piano operativo che sul piano analitico.
La critica filosofia dell’identità
Francesco Remotti ritiene, infatti, che l’identità sia una questione inerente la realtà concreta degli attori sociali e, allo stesso tempo, riguardante le ricerche condotte dalle scienze sociali. Negli anni 60-70 del Novecento, vi fu una riscoperta dell’identità, la quale divenne il centro delle indagini svolte nei settori antropologici e sociologici.
La differenza sostanziale tra i due livelli concerne il valore che le si attribuisce: i ricercatori sono disposti ad affermarne il carattere ineffabile. Al contrario, i soggetti sociali tendono a considerarla come un nucleo impermeabile, sottratto al tempo e alla negoziazione. Essi si servono dell’identità per avanzare precise richieste di riconoscimento, che non accettano l’attivazione di processi di mediazione né compromessi.
La critica al concetto di identità affonda le sue radici nella tradizione filosofica, di cui Remotti riprende le argomentazioni. In particolare, l’autore ripropone le riflessioni di David Hume relative al tema dell’io. Al filosofo anglosassone va, dunque, riconosciuto il merito di averne sottolineato l’illusorietà. L’identità non è altro che un’immagine fittizia, prodotta dall’azione congiunta di immaginazione e memoria. Nel Trattato sulla natura umana, egli dichiara che la soggettività si riduce in fondo ad un fascio di percezioni, che si susseguono l’una all’altra. La memoria si occupa di tenerle insieme nella successione, mentre l’immaginazione sopperisce alle lacune della prima.
L’attribuzione dell’identità, sia agli individui che agli oggetti, è erronea perché presuppone l’eliminazione delle differenze. L’identità è, secondo Hume, l’assolutizzazione della somiglianza. In natura, non esiste nulla che possa dirsi autenticamente identico.
La dialettica del riconoscimento
L’altro grande riferimento filosofico, per Remotti, è rappresentato da Hegel. Hegel sviluppa una profonda critica nei confronti dell’identità e descrive sapientemente le logiche del riconoscimento. L’autore sostiene, di conseguenza, che sia necessario attingere dall’impostazione del filosofo tedesco. In questo quadro teorico, l’identità si configura come una vuota tautologia in quanto rispecchia la rigidità dell’intelletto:
“con il suo immobilismo classificatorio l’intelletto si rende estraneo alla realtà, mentre la ragione coglie e riproduce la dinamica profonda del reale. se l’intelletto separa, la ragione lega e connette.”
La realtà prevede l’inclusione e l’integrazione dell’alterità, non la sua estromissione. Il fattore dell’integrazione emerge chiaramente nella dialettica del riconoscimento. L’incontro con l’altro, nell’immaginario hegeliano, fonda la soggettività: sono una coscienza solo se l’altro mi riconosce come tale. Lungi dall’essere un fatto marginale, l’esposizione all’alterazione è costitutiva dell’io.
Francesco Remotti: la proposta di un’antropologia à rebours
Il confronto serrato con Hume ed Hegel consente di raggiungere due importanti risultati. In primo luogo, è stata definitivamente sancita la natura finzionale dell’identità. In secondo luogo, si è chiarito che non tutte le richieste di riconoscimento sono identitarie. Al contrario, l’identità si qualifica soltanto come una tipologia speciale di riconoscimento. A questo punto, è evidente che il concetto di identità si rivela insufficiente sia sul piano operativo che sul piano analitico.
La proposta di Remotti è, allora, quella di acquisire nuovi strumenti di analisi. Innanzitutto, occorre realizzare una vera e propria sostituzione: all’identità subentra la finzione. Il concetto di finzione consente di rispondere a domande, quali “chi finge l’identità?”. Le identità, in quanto invenzioni, non rappresentano i veri attori sociali. Quest’ultimi sono i “noi”, ovvero soggettività sociali costruite nello spazio dell’interazione. Sono i “noi” che si fanno portavoce delle richieste di riconoscimento. Adottare la logica del riconoscimento significa, prosegue Remotti, adottare la logica delle relazioni dal momento che:
“non può esserci riconoscimento se non come relazione tra soggetti, ovvero tra “noi”, i quali si costituiscono socialmente non prima, ma mediante e grazie al riconoscimento”.
In conclusione, si può affermare che, mettendo fuori gioco l’identità, è possibile descrivere il rapporto con l’alterità in termini di negoziazione, piuttosto che di opposizione.
Alessandra Bocchetti
Bibliografia
Francesco Remotti, L’ossessione identitaria, Economica Laterza, Bari 2017.
L’immagine di copertina è ripresa dal sito: https://www.ilsole24ore.com