American Crime Story 2, secondo capitolo della serie antologica di Ryan Murphy (American Horror Story), torna a parlare delle ambiguità e delle aporie della società statunitense. La ricostruzione della vicenda di O.J. Simpson, nella prima stagione, mostrava uno spaccato storico-sociale delicatissimo, dove il caso giudiziario di un uomo (quasi sicuramente colpevole) venne profondamente influenzato dalla lotta per l’uguaglianza degli afroamericani.
L’assassinio di Gianni Versace cerca di fare un passo avanti, esibendo un fascio di tematiche più corposo. Tutt’ora resta poco chiaro come siano andate davvero le cose. La famiglia Versace ha respinto tanto la serie quanto il reportage su cui è basata. Tuttavia, le vicende del noto killer Andrew Cunanan (Darren Criss), fiction o realtà che siano, restano una interessante lente per esaminare omosessualità, omofobia e ossessione per il successo.
American Crime Story 2: omosessualità e omofobia
Ancora oggi, l’omosessualità è una realtà difficile, non sempre accettata, spesso non rispettata in modo appropriato. Una serie recente come Sense8 dà un saggio della situazione. In essa si sviluppano problematiche che potrebbero sembrare datate ai più progressisti, ma che sono invece attualissime.
Anche in American Crime Story 2 essa costituisce un tema rilevante. Seppur la si descriva da varie angolazioni, l’omosessualità è principalmente uno scheletro nell’armadio o un piacere proibito da tacere. L’omofobia è il suo gemello siamese.
Andrew Cunanan racchiude in sé la frustrazione e l’umiliazione di coloro che vengono discriminati per i propri gusti sessuali. Una condizione drammaticamente espressa dal personaggio di Jeff Trail, costretto a lasciare la marina per tali motivazioni.
Ma Cunanan è anche simbolo di una voracità rampante, che vuole aggiudicarsi tutto ciò che può, che non accetta di essere respinta. Invece di farsi intimorire dai pregiudizi, si espone, manipola, minaccia, per rivendicare ciò che ritiene gli sia dovuto. Eppure vive la propria sessualità in modo altalenante, a tratti euforico e a tratti struggente, attraverso una storia personale convulsa.
Dal lato opposto, abbiamo un Gianni Versace (Edgar Ramirez) ugualmente afflitto da dubbi e difficoltà legati alla propria omosessualità, ovattati però dal suo potere economico e culturale. Versace, per quanto ci rifletta a lungo e si scontri con una Donatella (Penelope Cruz) preoccupata per le sorti della loro firma, può concedersi il lusso del coming out. Ciò che appare come un rischio è in realtà un privilegio.
Tanti altri personaggi devono o preferiscono tenere il segreto, per inesorabili pressioni sociali. Una delle scene cruciali è indubbiamente l’interrogatorio di Ronnie, dove Versace è visto come un modello irraggiungibile. Tutti gli altri omosessuali sono pressoché invisibili alla società.
L’omosessualità, ad ogni modo, non è il tratto più rilevante della serie. È una superficie che nasconde un dramma molto più profondo.
American Crime Story 2: L’assassino di Gianni Versace
La trama portante di American Crime Story 2 è in realtà la discriminazione. Non solo degli omosessuali, ma di tutti coloro che non riescono a stare al passo. Il dogma è la scalata sociale e la gerarchia che ne deriva è assoluta. Coloro che raggiungono il successo sono moralmente superiori. Tutti gli altri vivono in un cono d’ombra di normalità accettata a denti stretti. Chi non riesce a puntare su se stesso i riflettori e avere uno stipendio da sogno puzza di sconfitta e resa. Se fallisci, sei tu il responsabile e meriti di essere biasimato. Ma il cruciale non-detto di questo sistema è che le pari opportunità sono un’utopia concretizzata di rado. E, dunque, il biasimo è mal riposto.
Andrew Cunanan è vittima e iperbole metaforica di quest’orizzonte convulso. Cresciuto e viziato da un padre che gli ha insegnato che l’esteriorità è tutto, Andrew viene fagocitato dalla società dell’apparenza e dei consumi.
Figlio diretto di una società dove il comfort è dovuto, ma la fatica un optional, Cunanan risolve la contraddizione diventando un parassita. Vive nel terrore di non riuscire ad emergere, di restare uno qualunque. Di restare invisibile, come quando Versace rifiuta le sue avances. La sua tossicodipendenza è prima di tutto ideale, legata al successo personale. Proprio nel momento in cui gli ostacoli diventano inaggirabili la violenza divampa. E con essa la malattia.
Tra psicosi e mito del successo
American Crime Story 2 si inscrive così in un filone ultimamente in voga. Accostandosi a Manhunt: Unabomber e alla riuscitissima Mindhunter, analizza il serial killer come parto della società post-moderna. La rottura avviene quando il soggetto non riesce più a conciliare la propria sfera emotiva e le regole di un gioco sociale contraddittorio. L’omicida è il simbolo di una frattura e di un’impossibilità comunicativa, che nei suoi risvolti brutali è spesso condannata a priori.
Seppure non si possa assolvere Cunanan come vittima, egli resta uno dei tanti aborti che il mito del successo scarica sul suo cammino. Invece di assumersene la responsabilità e curarsene, la società provvede a stigmatizzare arrogantemente le proprie contraddizioni più preoccupanti. Prima spinge i suoi membri all’esaurimento nervoso e poi si sorprende della loro follia. Contraddizione di cui resta vittima anche la sceneggiatura.
Stucchevole il perenne contrasto tra il protagonista e i self-made men (Miglin, David, Blanchford) che si sono guadagnati ciò che hanno, solo per finire vittime di un immaturo che si è rifiutato di impegnarsi quanto loro. Primo fra tutti, Versace che si è fatto strada dall’Italia popolare fino alla California, passando per Milano. Completamente rimossi i risvolti oscuri dell’impero Versace e i sospetti legami con la malavita, abbiamo di fronte un onesto campione della dedizione del tutto anacronistico, insincero ed alieno alle tematiche che la serie cerca di affrontare. Farne l’antitesi di Cunanan è una scelta didascalica e discutibile.
American Crime Story 2 non riesce ad andare fino in fondo, perché manca di esibire chiaramente una verità solo accennata, a tratti smentita. Ovvero, che il self-made man a cui riconosciamo stima e il serial killer, la cui follia biasimiamo, sono figli dello stesso grembo.
Giovanni Di Rienzo