Brand journalism: Chi ha parlato di Marchette?

Per il consumatore moderno non c’è niente di peggio che subire la pubblicità. Annoia, e talvolta sortisce l’effetto contrario, dal momento che ormai siamo tutti consapevoli di quale sia il loro obiettivo finale. Per (s)fortuna esiste il marketing, e qui le cose si fanno interessanti, perché se comunicare solo l’esistenza di un prodotto/servizio è davvero molto triste. Anche se in omaggio c’è la descrizione degli innumerevoli benefici fruibili, fare brand journalism, ha tutt’altro sapore.

Ogni azienda ha la sua rivista

Ogni azienda che si rispetti ha interesse a farsi conoscere, far parlare di sé. Ma bisogna prestare attenzione alla propria reputazione, altrimenti si rischia di fare la fine di quel famoso marchio che adesso piange ancora coi propri legali per aver offeso il mercato orientale. La soluzione? In realtà parrebbe molto più semplice di quanto si pensi: basta assumere un buon comunicatore che con creatività, ma non troppa, descriva la storia del brand.

Chi ha parlato di Marchette?

La comunicazione d’impresa è una faccenda seria, perché deve occuparsi sia di curare l’immagine pubblica ordinaria dell’azienda, sia gestirne eventuali situazioni di crisi. Quando non è fatta bene, le ripercussioni possono diventare davvero pesanti, sia da un punto di vista di reputazione, che di ritorno sull’investimento; e le due cose non sono affatto slegate.

 

La tendenza attuale fra i grossi marchi sembrerebbe, dunque, quella di far pubblicare un proprio magazine in cui è possibile leggere i valori che l’azienda vuole trasmettere, ma non solo. È importante intercettare un filone in cui è possibile immettersi, che sia in sintonia con i principi espressi dal brand. Un esempio? LINC (Lavori in corso) è il corporate magazine di ManpowerGroup. Se l’azienda offre servizi di gestione delle risorse umane, non potrà che scegliere per il proprio magazine temi incentrati sul mondo del lavoro. Viene da sé che il profilo del comunicatore in questo caso coinciderà parecchio con quella del giornalista. Infatti non è un caso se i brand più noti si affidano a firme d’eccellenza per raccontare storie vere che sono allineate agli ideali aziendali. Se da un lato aumenta l’engagement con i lettori che si rispecchiano in essi, d’altra parte si rafforza la posizione strategicamente concordata. È così che lo story telling propugnato confluisce sotto la denominazione più ampia di brand journalism.

Corsi e ricorsi storici

Benché il brand journalism sembri qualcosa di estremamente nuovo, appena sfornato dalle menti brillanti del reparto Marketing, in realtà ha radici un po’ più vecchie. Precisamente torniamo indietro agli inizi del novecento, quando André Michelin insieme all’azienda di pneumatici fondava l’omonima rivista, in cui si dispensavano consigli ai viaggiatori sui vari itinerari possibili. Le guide Michelin nel tempo si sono specializzate sempre più nel settore del turismo, aprendosi anche alla categoria gastronomica. Oggi sono considerate il numero uno nella valutazione della qualità di ristoranti e hotels internazionali.

Alcuni nomi

Ma se Michelin ha aperto le danze, moltissimi marchi hanno intrapreso la strada del brand journalism. È il caso dei magazine proposti da Trenitalia, con La Freccia, ma anche Alitalia, con Ulisse, nonché la Red Bull con Red bulletin. In particolare questa rivista cattura l’attenzione, che ha conquistato il settore sportivo, dove effettivamente tendeva già il marchio, proponendo bevande (fintamente) energizzanti. L’associazione di valori agli occhi del consumatore di red bull, probabilmente anche lettore del red bulletin, sicuramente non risulterà discordante.

Questioni di business

Oltre le storie personali dei vari brand che hanno negli anni abbracciato questa tipologia di comunicazione d’impresa, vi è comunque una logica di business alle spalle che è interessante analizzare perché permette di focalizzarsi almeno su tre punti.

Buone notizie per gli amanti della stampa cartacea

Sì, ma non troppo. In controtendenza all’andamento attuale delle riviste cartacee, sempre più brand scelgono di far pubblicare le proprie riviste. Ma per quanto sia una scelta consapevole e applicata, non prescinde certo dalla contemporanea messa a punto del corrispettivo online. E sempre maggiore attenzione quest’ultimo richiede nella sua strutturazione e fruibilità, laddove un buon lavoro prevedrebbe il giusto equilibrio fa contenuti interessanti e grafica accattivante. Il fine è di alzare i canonici sei secondi d’attenzione del lettore medio facebook addicted.

Più brand journalism in futuro

Se diamo uno sguardo al mercato del lavoro attuale, ci rendiamo anche conto di quanto alcune figure professionali stiano cambiando, reinventandosi o ibridandosi fra loro, e quante altre stiano nascendo. Nel nostro caso il giornalista, su cui sono stati fatti i migliori pronostici, sta ibridandosi sempre più con il web content o il brand journalist, perché va bene il mondo hi-tech, ma la creatività è sempre umana.

Obiettivo memorabilità

Dopo che un’azienda ha fatto brainstorming con reparto marketing, sforzandosi di lanciare contenuti interessanti in riviste impegnate su temi d’interesse collettivo, non c’è minaccia peggiore che fare male i calcoli ed avere l’effetto volantino pubblicitario. E qui ritorniamo al nostro consumatore sempre più consapevole che non vuole vedere la marchetta, ma preferisce essere guidato nell’acquisto, poiché è in realtà alla ricerca di un’esperienza irripetibile, che gli garantisca una qual certa dose di memorabilità. Non è più ciò che compri a fare la differenza, ma lo stile di vita associata alla cosa acquistata. E questo le aziende lo sanno, eccome.

Autoreferenzialità e autorevolezza

Quelle più brave hanno infine capito una cosa fondamentale: il brand journalism garantisce autorevolezza. Ciò vuol dire esprimersi in merito a fatti e situazioni mantenendo prima di tutto credibilità, e la credibilità porta ad uno step successivo, ovvero l’autoreferenzialità delle informazioni proposte. Così non ci stupiamo più se Mc Donald’s ci rassicura sulla qualità dei suoi prodotti, dopo averci portato in gita scolastica nei suoi laboratori.

Roberta Fabozzi