Natsume Sōseki è, ormai da tempo, il “sommo scrittore” giapponese, simbolo del paese del Sol Levante. La sua foto, non a caso, compare sulle banconote da 1000¥ come un sinonimo della sua istituzionalizzazione. Un’istituzionalizzazione che, però, potrebbe sgretolarsi facendo anche solo una veloce immersione in quello che è il mondo di Sōseki.
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Natsume Sōseki: uno scrittore complesso
Fin dalla nascita, Sōseki non è mai stato una persona fortunata.
Nato in un’importante famiglia di Edo (l’attuale Tōkyō), viene presto abbandonato dai suoi genitori per vergogna. La madre e il padre, infatti, erano considerati troppo grandi di età per avere ancora un figlio ed è per questo che Kinnosuke (vero nome dell’autore) viene subito affidato a una coppia di antiquari.
Dopo quattro mesi, però, lo ritrovano in una cesta a un mercato, insieme ad altra merce in vendita. La sorella maggiore lo riconosce e per questo lo riporta a casa, dove però non certo accolto a braccia aperte, dato che il padre lo lascia subito ad un’altra famiglia.
Qui resta fino all’età di otto anni, per poi ritornare forzatamente dai suoi genitori biologici che, ancora attanagliati dalla vergogna, gli dicono di essere i nonni.
Un’infanzia infelice e dei forti traumi subiti fin dalla tenera età, quindi, che non hanno di certo aiutato la formazione del suo carattere, insicuro e ansioso.
L’esperienza inglese
Nonostante la sua forte passione per i classici cinesi, i tempi in cui viveva quasi lo costringono a studiare una lingua straniera, nel suo caso l’inglese. Siamo infatti nel periodo Meiji, anni in cui il Giappone si è dovuto forzatamente aprire all’Occidente e alla conseguente modernizzazione.
Essendo uno scrittore particolarmente brillante, il governo giapponese decide di inviarlo per proprio conto in Inghilterra, dove resta per un paio di anni.
La sua borsa di studio, però, non gli permette di vivere agiatamente e questo, unito al disagio culturale che prova a Londra, gli costa un’altra terribile esperienza.
È al ritorno in patria che comincia la sua avventura da scrittore, in contemporanea con quella di professore universitario.
Una carriera, quest’ultima, non molto lunga, stroncata sempre dalla sua insicurezza e dal rapporto insincero con i suoi alunni.
Così, dopo il successo di Wagahai wa neko de aru (Io sono un gatto, 1905), Sōseki accetta una collaborazione con il quotidiano Asahi Shinbun e si dedica completamente alla scrittura.
Vengono allora pubblicati altri suoi lavori, e tra questi uno dei più significativi è sicuramente Yume Juya (Dieci notti di sogni), una raccolta che chi conosce il Sōseki di Kokoro (Il cuore delle cose, 1914) troverà molto particolare.
Dieci notti di sogni
Dieci notti di sogni , pubblicato a puntate dal 25 luglio al 5 agosto 1908, sono dei brevissimi scritti in cui si leggono sogni stranissimi, a tratti inquietanti e angosciosi. Risultano insoliti anche per la letteratura fantastica, dato che sono sogni nudi e crudi.
Per molto tempo gli studiosi hanno cercato di capire se si trattassero di sogni reali o meno. Probabilmente, una base di “realtà” – se di realtà si può parlare in una raccolta onirica – c’è, ma è stata maneggiata e riscritta da Sōseki.
È di sicuro una raccolta sperimentale, nonostante il sogno sia un topos della letteratura giapponese classica.
Con il suo carattere transitorio, il sogno, nella tradizione, viene usato per esprimere l’elemento sfuggevole della condizione umana, la sua evanescenza.
Ma siamo comunque agli inizi del ‘900, Sōseki aveva già fatto il suo viaggio in Inghilterra e, per quanto lui la rigettasse, questa era comunque una componente del suo essere. È quindi naturale che il sogno, qui, presenti anche delle caratteristiche occidentali: svelare il subconscio, la psiche umana.
Sperimentazioni moderniste
È interessante e assolutamente significativo notare che questa raccolta segue un’altra opera poco conosciuta di Sōseki, Kōfu (Il minatore, 1908).
In quest’ultima, infatti, l’autore giapponese si cimenta in una sorta di stream of consciousness, che nel suo caso prevede soprattutto una sperimentazione sul piano linguistico. Il monologo interiore del minatore procede attraverso associazioni irrazionali e rimandi, senza rivolgersi a nessun pubblico specifico.
In una naturale progressione, il sogno diventa un espediente.
Sōseki crea quello che Napier definisce un realm in between, in cui presente, passato e futuro sono mescolati e indistinti.
È una dimensione che sfugge alle coordinate spaziali e temporali e che, proprio per questo, è libera di presentarci la parte più nascosta di tutti noi. L’unico contatto con la realtà – presente, tra l’altro, soltanto in alcuni racconti – ci è dato dalla frase iniziale, “Ho fatto questo sogno”. È una frase -cancello, che ci permette di distinguere la realtà dall’irrealtà.
In altri, però, questo ingresso non è definito e quindi ci ritroviamo completamente catapultati nella psiche di Sōseki.
All’apertura della raccolta, troviamo il racconto di un incontro tra un uomo e una donna. Nonostante abbia delle caratteristiche ben definite e sia molto diverso dagli altri racconti, è un esempio perfetto per la questione di cui sopra. In sole cinque pagine, Natsume Sōseki ci fa vivere cento anni.
È un racconto dalle tinte più sensuali rispetto ai successivi e dalle splendide immagini. I due protagonisti giacciono insieme su un letto, quando lei gli dice che a breve morirà, nonostante l’aspetto sano. Poco prima che questo accada, gli fa promettere di aspettarla per cento anni.
Il tutto si conclude con una delle scene più belle della raccolta.
Allora uno stelo verde cominciò ad allungarsi di traverso da sotto la roccia verso di me. Lo guardai mentre si allungava finché, proprio quando fu vicino al mio petto, si fermò. […] Mi allungai in avanti e baciai i bianchi petali gocciolanti di fredda rugiada.
Nonostante il primo racconto sia sicuramente il più suggestivo, particolarmente angosciosa risulta anche la terza notte.
In questo sogno, un uomo si ritrova a portare sulle sue spalle un bambino cieco, che scopre essere suo figlio, e che lo guida verso una foresta.
“Prosegui ancora un po’ e capirai. Era proprio una sera come questa!” esclamò a voce alta, come stesse parlando tra sé e sé.
“Che cosa?”, chiesi con un filo di voce.
“Ma come, non te ne ricordi?”
La raccolta ha ispirato anche dei film, tra cui la trasposizione del 1990, Yume (Sogni) e una più recente, del 2006, che riprende il nome dei racconti.
Carmen Borrelli
Bibliografia
- Sogni di dieci notti, di Natsume Sōseki, a cura di Andrea Maurizi
- Natsume Sōseki, in Down to the West, di Donald Keene
- Piccoli racconti di un’infinita giornata di primavera, di Natsume Sōseki, a cura di Tamayo Muto