Giuditta che decapita Oloferne: il fascino della pittura di Artemisia Gentileschi, dato dai suggestivi effetti di luce che esaltano la tavolozza brillante
Artemisia Gentileschi (Roma, 1593- Napoli, 1653) è una delle pittrici italiane più conosciute e apprezzate del XVII secolo, seguace della scuola caravaggesca. In quell’epoca non era semplice per una donna affermarsi come pittrice, Artemisia fu la prima donna ad entrare a far parte dell’Accademia di Arti e Disegno di Firenze. Figlia di Orazio Gentileschi, pittore di scuola caravaggesca, Artemisia si trasferì a Firenze per sfuggire dallo scandalo in cui fu coinvolta a Roma dopo l’accusa di stupro rivolta al pittore Agostino Tassi. Questo drammatico evento si concluse con la prevedibile umiliazione di Artemisia.
La sua produzione è un continuo richiamo alla triste vicenda, e le sue opere abbondano di giovani simbolo dell’innocenza che deve soccombere alla brutalità, tratte dal repertorio classico, sacro e mitologico, di sante martirizzate, ma anche di donne, come “Giuditta che decapita Oloferne”, che vincono l’uomo.
Descrizione dell’opera
Al secondo piano (ospita la “Galleria napoletana” progettata e solo in parte attuata da Gioacchino Murat), nella sala 87, del Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli è esposta la tela della Gentileschi raffigurante “Giuditta che decapita Oloferne”, un dipinto ad olio (162×126 cm) realizzato tra il 1625 e il 1630. La tela appare di minori dimensioni e di diversi colori rispetto ad una seconda versione conservata alla Galleria degli Uffizi a Firenze e realizzata nel 1612. In origine, le due tele erano più o meno della stessa dimensione, ma in seguito, la copia di Capodimonte risulta essere tagliata di circa 40 cm in alto e 30 cm a sinistra.
L’iconografia della Giuditta che decapita Oloferne è tratta dal repertorio biblico:
Giuditta era un’eroina giudea,una ricca vedova, bella giovane e di indiscussa virtù, che fece innamorare il generale assiro Oloferne, i cui soldati stavano assediando la città di Betulia in Giudea. Dopo aver fatto ubriacare il condottiero, Giuditta lo decapitò privando così gli assiri del loro più valoroso condottiero: fu quindi facile per gli assediati mettere in fuga i nemici.
L’artista potrebbe essersi ispirata al prototipo caravaggesco di Palazzo Barberini nella scelta di rappresentare il momento più difficile e violento e per quanto concerne alcuni particolari compositivi, come la posizione delle braccia di Giuditta e della testa di Oloferne.
Lo scopo principale della pittrice è il mettere in scena l’atto saliente della decapitazione, restituendo una rappresentazione il più possibile attinente alla realtà: Giuditta affonda la lama nella gola del tiranno, aiutata dall’ancella che, partecipando attivamente all’assassinio con espressione impassibile, lo tiene fermo. Oloferne pare cerchi di liberarsi, divincolandosi dalla presa di Abra, mentre Giuditta compie l’atto con estrema determinazione; le lenzuola bianche su cui è coricato Oloferne, si macchiano del suo sangue, violando così il loro candore.
Un altro tratto importante è la fonte di luce proveniente da sinistra, che illumina i corpi dei personaggi, conferisce al dipinto un forte coinvolgimento drammatico, accresciuto anche dall’inquadratura serrata. Gli squarci di luce mettono in rilievo le figure dei tre protagonisti della scena. Le tonalità cupe sono tipiche del barocco e contribuiscono a conferire un tocco di teatralità alla scena. I gesti e gli sguardi delle due donne sono studiati nei minimi dettagli, così come il disperato tentativo del guerriero che oppone, anche se invano, tutta la forza per impedire che l’eroina possa tagliargli la testa. I colori luminosi e vibranti, in particolare quelli della veste di Giuditta, esaltano tutta la femminilità della giovane.
Anna Cuomo