L’Italia di cui ci parla De Sica nel 1952, non ci è poi così estranea. Andreotti, l’allora Sottosegretario allo Spettacolo, dirà a proposito “De Sica ha voluto dipingere una piaga sociale e l’ha fatto con valente maestria, ma nulla ci mostra nel film che dia quel minimo di insegnamento […] E se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di De Sica è l’Italia del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria.”
E invece quest’Italia sembra perfettamente in linea con la crisi del neorealismo proclamata un anno prima, e ancor di più con quei quindici anni di inflazione, bassi salari e povertà, che spinge la classe dei nuovi “paria della nazione”, i pensionati, a manifestare nella prima scena del film.
L’attenzione si focalizza su Umberto Domenico Ferrari (Carlo Battisti) che, dopo aver passato una vita a lavorare al Ministero dei Lavori Pubblici cerca di affrontare dignitosamente la vecchiaia, la miseria economica, la solitudine.
Unici suoi fedeli amici sono la cameriera Maria e il suo cagnolino Flaik, tutti gli altri incontri, dalla padrona di casa Antonia che vuole sfrattarlo ai pazienti dell’ospedale dove si cura, sono figure passeggere e indifferenti alla sua condizione precaria. Il buon vecchio Umberto tenta inizialmente di vendere il suo orologio, dal valore più affettivo che economico, ma senza successo; arriva presto a vivere il disagio dell‘elemosina e del prestito. Sarà il suo cagnolino infine a salvarlo, almeno momentaneamente, dal baratro in cui l’ha gettato la società, sperando forse che un futuro migliore attenda nelle mani dei bambini che nelle ultime inquadrature si vedono giocare al parco.
La sceneggiatura di Cesare Zavattini, potente e diretta, scorre scandita dal ritmo di un’attenta e fulgida regia del genio di Vittorio De Sica. Le peripezie dell’anziano muovono e animano il tessuto emozionale del film, creando un’atmosfera malinconica e commuovente.
Come di consueto per i neorealisti, il protagonista di Umberto D non è un attore professionista ma un professore di Glottologia dell’Università di Firenze, che riesce però a rendere il dramma di uomo solo e abbandonato, uno sconfitto forse, ma non un vigliacco che fugge con l’ultimo atto; un uomo decoroso, che vuole essere autonomo e teme la vergogna. Rivendicazioni più che lecite per un pensionato che ha lavorato onestamente tutta la vita.
Ed ecco che dopo il successo di “Ladri di biciclette” il regista romano riesce ancora una volta a entrare nel vivo della crisi e delle problematiche italiane attraverso i volti e le vite dei suoi abitanti, facendo specchiare l’Italia in se stessa e in una triste realtà di ingiustizie.
Sicuramente la cultura cinematografica italiana ha guadagnato più dei suoi investitori, che all’epoca riuscirono a incassare circa la metà delle spese di produzione. Ma ne è valsa la pena.
Federica Margarella