Nel 1976 Einaudi pubblicava Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del ‘500 di Carlo Ginzburg, un saggio storico che può essere considerato a tutti gli effetti il precursore della corrente di ricerca storiografica microstorica.
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A distanza di quasi mezzo secolo qual è la validità de Il formaggio e i vermi?
La validità de Il formaggio e i vermi è quella di mettere in campo un nuovo metodo di indagine storiografica; si può considerare il manifesto della corrente microstorica, nelle parole dello stesso Ginzburg:
[…] la microstoria emerse qualche anno dopo [la pubblicazione de Il formaggio e i vermi], dalle discussioni di alcuni storici — Edoardo Grendi, Giovanni Levi, Carlo Poni ed io — riuniti attorno alla rivista Quaderni storici.
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La microstoria si propone abbandonare lo studio delle masse per occuparsi degli uomini ‘qualunque’, singolarmente o in piccoli gruppi, in modo da poter comprendere il mondo che li circonda. Questa prospettiva si raggiunge partendo dal particolare per poi arrivare al generale, seguendo il tragitto inverso alla storiografia tradizionale. Proprio per questa minuziosa attenzione al particolare, la microstoria è strettamente legata ad altre scienze sociali quali antropologia, sociologia, economia, ecc.
Il formaggio e i vermi rappresenta il modello del metodo microstorico: Ginzburg disvela non soltanto il cosmo del mugnaio Menocchio, ma anche quelli di coloro che lo circondano, consentendo al lettore di costruire una visione a tutto tondo della situazione socio-culturale di un determinato gruppo di persone in una determinata finestra temporale.
Com’è strutturato e di cosa parla Il formaggio e i vermi?
Il formaggio e i vermi è organizzato in 62 paragrafi che seguono cronologicamente le vicissitudini del mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, con l’Inquisizione romana. Menocchio fu denunciato il 28 settembre 1583, ufficialmente per aver espresso e argomentato opinioni contrarie alla fede cattolica; molto probabilmente però la denuncia fu sporta per motivi personali.
Tra le convinzioni scandalose sostenute dal mugnaio vi erano il non riconoscere l’autorità delle gerarchie ecclesiastiche e l’abitudine di bestemmiare e non ritenerlo peccato. La più sconvolgente di tutte, però, riguardava la creazione del mondo (e che dà infatti il titolo al libro):
Io ho detto che, quanto al mio pensier et creder, tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel deventorno vermi, et quelli furno li angeli; […] et tra quel numero de angeli ve era ancho Dio creato anchora lui da quella massa […]
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La idee di Menocchio sembrano il frutto di letture private, di contatti con gruppi scismatici (ad esempio gli anabattisti) e del riaffiorare di un sostrato folclorico apparentemente dimenticato. I due processi contro Domenico Scandella coprono un arco di circa diciassette anni e culminano con la sua esecuzione (non se ne conosce la data precisa, ma dovrebbe essere avvenuta tra la fine del 1599 e il 1601).
Il formaggio e i vermi e l’Inquisizione
Le vicende narrate consentono la ricostruzione non soltanto dell’operato dell’Inquisizione (come il controllo delle opere possedute e lette dall’imputato, o i rapporti con persone ritenute sospette), ma anche della società in cui Menocchio e gli Inquisitori si muovevano.
All’epoca, la “Congregazione della romana e universale inquisizione”, comunemente detta Santa Inquisizione, operava da già quasi mezzo secolo ed era quindi un’istituzione oramai assestata. La lotta all’eresia iniziata da Papa Paolo III con la sua istituzione nel 1542 si poteva considerare conclusa nel 1572 con la fine del pontificato di Papa Pio V [3]. Infatti, nonostante il controllo non si fosse (ancora) allentato, la stagione di più intensa e rigida repressione si era esaurita.
L’Inquisizione, oltre allo sradicamento degli ultimi focolai ereticali, aveva cominciato a volgere l’attento sguardo verso altri ‘peccati’. Il caso di Menocchio rappresenta un caso specifico, poiché le posizioni che egli sostiene non si innestano all’interno di un ‘movimento’, ma sono percepite come pericolose in quanto rappresentano un’evidente deviazione dall’ortodossia.
Qual è l’approccio storiografico adottato da Ginzburg?
Nella prefazione de Il formaggio e i vermi, Ginzburg pone il problema della definizione di “cultura popolare” e del suo studio storico. Il primo problema riguarda la forma orale della cultura popolare, per cui lo storico si ritrova a studiare da fonti che risultano essere una rielaborazione dell’originale, sia perché si tratta di trascrizioni sia perché queste trascrizioni sono state operate da persone appartenenti a quella che viene definita “cultura dominante“.
In secondo luogo, c’è rischio di trovarsi di fronte non tanto ad una forma mediata di “cultura prodotta dalle masse popolari” quanto più alla “cultura imposta alle masse popolari“. A questi ed altri problemi, gli storici hanno proposto differenti soluzioni, che hanno influenzato il metodo d’indagine.
Ginzburg si avvicina alla prospettiva assunta da Bachtin: le culture dominante e popolare si influenzano a vicenda. Questa visione pone il problema, sostanzialmente insolubile, dei tempi e dell’entità dell’influenza reciproca.
Ottavia De Luca d’Amato
Note e Bibliografia:
[1] S. Fiori, La Storia o è eretica o non è Storia (intervista a Carlo Ginzburg), La Repubblica, 11 settembre 2019, p. 30. https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2019/09/11/news/carlo_ginzburg_la_storia_o_e_eretica_o_non_e_storia_-235698431/
[2] Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi: il cosmo di un mugnaio del ’500, Torino, Einaudi, 2012, p. 8.
[3] Giovanni Romeo, L’inquisizione nell’Italia moderna, Biblioteca essenziale Laterza 48, Roma, Laterza, 2002, p. 15.